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Andrea Pedrinelli ci racconta qualcosa su Canzoni da leggere

In libreria per Edizioni della Goccia il prezioso volume Canzoni da leggere di Andrea Pedrinelli un viaggio poetico e a volte profetico nella storia della nostra canzone…

Quando nasce l’idea di questo libro?

Grafica Divina

L’idea ha radici lontanissime e profonde, perché avevo sempre pensato che si potesse provare a proporre per la riflessione quotidiana dei lettori di un giornale, anziché pensieri di filosofi o religiosi, anche delle canzoni. Avvenire poi ha una lunga tradizione di rubriche giornaliere che partono dal commentare pensieri, fatti, figure, lanciando piccoli-grandi spunti di riflessione. Così, sostenuto dai colleghi che ringrazio a fine libro, ho proposto l’idea al direttore: partendo (come “numero zero” di esempio) da un pezzo che ritenevo perfetto per spiegare le potenzialità della cosa, cioè Città proibita dei Pooh, una delle pochissime canzoni italiane (e la prima) che abbia osato parlare degli eccidi di Tienanmen in Cina.

Al direttore la cosa è piaciuta… ed è finita addirittura in prima pagina! Con Città proibita però seconda a essere pubblicata, perché per debuttare ho voluto omaggiare il “maestro” Enzo Jannacci: a mio avviso il più grande cantautore di sempre. Comunque il successo avuto da queste “canzoni da leggere” proposte come rubrica di prima pagina per tutta l’estate del 2017, ha poi spinto il direttore a volere un bis l’anno scorso: e non sono tanti (anzi) coloro che hanno avuto tale riscontro.

Così, terminata la pubblicazione della seconda serie di “canzoni da leggere”, ho voluto raccoglierle in un libro: unendovi delle biografie e delle discografie dei tanti artisti citati, in modo da divulgare a tutto tondo la grande storia della canzone italiana che purtroppo molto spesso non si conosce. Ho voluto farne volume anche perché volevo che questa idea restasse documentata, e anche che un libro (più “ficcante” di un giornale) potesse sempre testimoniare che era mia, nonché di Avvenire e del direttore Marco Tarquinio che ci hanno creduto.

Oggi si fa in fretta, a dire di aver inventato le cose copiandole da chi ha meno visibilità… In Davide Indalezio e nelle Edizioni della Goccia ho incontrato non solo un editore sensibile e voglioso di fare cose belle, ma anche una persona sensibile e profonda, che crede nella cultura a ogni livello e si sacrifica per diffonderla: ed era giusto, che un progetto così amato e sentito venisse messo nero su bianco in modo definitivo in un contesto del genere.

Come hai scelto i brani da “raccontarci”?

Pensando a una cosa del genere da sempre, forse sin da quando riunivo canzoni significative in numerose cassettine di “compilation” da me pensate, avevo una base enorme di brani che ritenevo perfetti per lo scopo. E sono partito da lì: da Pierina di Massimo Ranieri e Ascolta dei Pooh, da Le vecchie di Drupi e Stelle di Mia Martini, da Buttare lì qualcosa di Gaber e Sei minuti all’alba di Jannacci…

Ho scelto alcune eccellenze che ritenevo meritassero più uscite, dunque coloro che considero il miglior cantautore, la miglior voce e il miglior gruppo, e poi ho esplorato nelle tante discografie a volte anche scoprendo brani inattesi, perché ad esempio mai avrei pensato di citare Lauzi – la prima volta – con La fretta.

Nella seconda serie ho ripreso gli artisti per me principali per qualità e profondità, vedi Lauzi stesso, De André, Mango, Castelnuovo, Bubola che mi ha regalato da studioso una bellissima prefazione, e ho continuato l’esplorazione aggiungendo spunti di altri che nella prima serie non c’erano stati – Gerardina Trovato per un pelo, per dire – oppure avevo smesso di cercare prima di giungere a loro avendo esaurito lo spazio. Ma una seconda serie mi ha permesso di includere anche brani che ho conosciuto poi, come quello di Nico Fidenco o quelli, appena usciti, della giovanissima Carmen contro la violenza sulle donne o di Caparezza.

Quali temi più presenti nella narrazione musicale?

Ovviamente il principale è l’amore: e da riscoprire oltre l’ovvio ci sono canzoni d’amore strepitose, anche drammatiche come quella che Minghi ha dedicato alla scomparsa di sua moglie. Poi c’è molto sociale, con l’ironia di Svampa o le invettive di Bertoli, ci sono le donne che cantano di sé, ci sono temi forti di oggi e ieri che vanno dal razzismo all’accoglienza, dal degrado etico alla critica verso una società del puro apparire…

Ho voluto però anche citare apposta temi sia forti che fuori dagli schemi, in tante canzoni che forse proprio per quello erano state ignorate. Il primo che mi viene in mente è la vecchiaia, che riprendo più volte ma soprattutto mi colpì ne La panchina di Peppino di Capri; poi i bambini o le mamme trattati senza retorica da Stefano Rosso o Renato Zero, il potere delle conventicole e delle lobby cantato da Otello Profazio o la droga gridata da un Franco Simone che fa parte delle nostre eccellenze d’autore assurdamente trascurate…

E mi è piaciuto anche giocare fra le righe tra temi dei brani e riflessioni sul far canzone, mostrando che la satira dei Gufi era forte senza bisogno d’essere volgare o che ci sono canzoni “strane” che però dicono tanto e parlano all’anima, come Santa Maria delle Caramelle di Mario Castelnuovo. Una delle più grandi soddisfazioni è stata la commozione di tanti artisti, spesso anche per le scelte fatte nel loro repertorio: ricordo Gianco, Finardi, la figlia di Endrigo stupita e commossa dalla scelta de Il diavolo c’è, soprattutto Andrea Mingardi, che prima mi ha scritto e poi mi ha pure telefonato, con una gentilezza e un affetto, e un’empatia nel concepire l’arte come qualcosa di puro e da condividere, che mi hanno toccato nel profondo.

Perché ancora oggi in molti hanno un atteggiamento snob verso la musica pop?

Temo che bisogni andare col pensiero agli anni Settanta, per parlare di questo. Erano gli anni del cosiddetto “impegno”, e di quando troppa nostra cultura è stata assorbita dalla sinistra per farne patrimonio esclusivo: in fondo banalizzando anche le stesse intuizioni e le denunce coraggiose di chi di sinistra lo era davvero, lasciando perdere i troppi che hanno fatto finta di esserlo per lavorare.

Da questa “appropriazione indebita”, per citare un disco di Paoli, nascono due abitudini che hanno segnato in negativo la nostra critica musicale: rendendola non eccelsa, come mi disse un giorno Battiato sorridendo e adombrando ben più appuntito pensiero. La prima abitudine deleteria è appunto quella di considerare “bello” solo l’impegno, anzi ahinoi solo l’impegno schierato dalla parte “giusta”; il che ha portato a ipervalutare testi interessanti su musiche orrende come a sottovalutare grandi compositori o autori poeticamente più comunicativi, popolari se vuoi.

La seconda abitudine, che è il contrappeso della prima, è stata criticare il successo in sé e per sé, come sinonimo di essersi venduti al mercato: con tanto di aggettivo “commerciale” che veniva usato a mo’ di insulto dimenticando che anche cose magnifiche e impegnate tipo De Gregori, erano “commerciali”. Nella misura in cui vendeva milioni di dischi, lo era certo più di Pupo! È un fatto aritmetico…

E così ci si è trascinati fino all’equivoco finale, contemporaneo, di divinizzare epigoni modesti ma furbescamente “impegnati” (vedi la scuola romana di Silvestri etc, per non parlare dell’attuale e modestissima scena trap) e trascurare poeti e geni musicali come Zero, Branduardi, i Pooh… Senza parlare degli “impegnati” fuori dal coro tipo Jannacci stesso o Bertoli. Oltretutto a chi non vive di canzoni e non ci va a fondo pare un affronto, che si parli di queste come di qualcosa di alto e importante: mentre invece che siano parte della nostra cultura è un fatto, ormai, che si dovrebbe dare per acquisito. Sono oltre cent’anni, che le canzoni raccontano in un coro a più stili chi siamo e com’è la nostra società.

Quanta poesia si nasconde tra le pieghe delle canzoni?

Per me tanta. Poesia intesa come poesia classica che le canzoni veicolano (vedi Giovanni Nuti e il suo lavoro sublime con Alda Merini), e poesia in senso lato che è figlia degli autori dei testi delle canzoni. A mio avviso bisognerebbe creare un neologismo per dare a questi ultimi un nome che non sia, poeta: per evitare diatribe inutili e per valorizzarne l’opera. Perché Valerio Negrini, Mogol, Giancarlo Bigazzi, ma anche Mango o Gragnaniello sono “poeti”: certo però non in senso classico.

Massimo Bubola nella sua prefazione sottolinea che in antichità la poesia era cantata, lo so: ma oggi come oggi che s’è creato per intellettualismo uno scarto fra letteratura e canzone, arte “alta” e arte (ingiustamente) “bassa”, penso sarebbe bello valorizzare anche con una terminologia nuova l’opera di un Negrini. Che era poeta, sì, ma non poeta come Foscolo: perché se la musica non vale una canzone non è bella, dunque è necessario “anche” un valido compositore; e perché un testo di canzone deve tener conto di metriche e necessità che esulano dall’uso della parola tout-court, gli sono imposte anzi da melodia e ritmi.

Bigazzi in questo fu geniale, creando un linguaggio nuovo sulle composizioni “anglofile” di Umberto Tozzi cui testi in inglese, con tantissime tronche e parole più brevi, si sarebbero adattati con una naturalezza che sembrava impossibile all’italiano. Personalmente ho apprezzato il Nobel a Dylan, ma avrei preferito che quell’occasione desse il “la” a valutare sempre come arte “altra” lo scrivere canzoni, quindi testo MA ANCHE musica, quindi forse prima Paul McCartney e i Beatles, che non Dylan… Mentre invece se la canzone è “poesia” come quella dei poeti classici… beh, forse più Leonard Cohen! Penso sia stata un’idea promozionale del Nobel, più che un ragionamento approfondito: per quanto Dylan strameritasse un riconoscimento di quel prestigio.

Ma è un linguaggio, la canzone, per me diverso, che per sua natura non si esaurisce solo nel testo: tanto che io ho voluto “leggere” solo belle canzoni, non bei testi che si appoggiavano però su un nulla musicale.

Quali autori dovrebbero far parte necessariamente del patrimonio culturale comune?

Penso che la canzone in sé, dovrebbe far parte del patrimonio culturale: e sarebbe da studiare nelle scuole. Anche come modo più “semplice” di veicolare nozioni, ideali, tradizione, concetti, problemi… La mia esperienza nelle scuole, non solo con Gaber, e il lavoro che fanno artisti straordinari come Erica Boschiero (essa stessa da studiare…) con i giovani, cui porta Bertoli o Joni Mitchell, testimoniano quanto possa servire, e aiutare i ragazzi anche nel piano tradizionale di studi.

Soprattutto, credo sarebbe bello uscire dagli equivoci di cui ti parlavo prima, che comportano l’inclusione in antologie solo di Guccini o De André, come se -per dire- Endrigo poeticamente non li valesse e appunto il pop fosse “minore”. Da questo punto di vista posso farti un esempio di autore che non solo vale, uno studio, ma che serve studiare: Valerio Negrini. Sì, ancora, ma non per nulla gli dedico nel libro un testo specifico.

Io da adolescente adoravo i Pooh: e grazie ai Pooh, e ai testi di Valerio, ho affrontato per la prima volta temi come l’omosessualità (Pierre, 1976, mai nessuno aveva sino allora affrontato l’emarginazione di un omosessuale in una canzone in modo esplicito, nonché con tanta delicatezza e rispetto), il carcere, la tratta degli esseri umani, appunto Tienanmen. “Senza frontiere” nell’88 fu la prima canzone italiana contro l’apartheid in Sudafrica, e contro un nascente razzismo da noi: non ne parlavano i grandi cantautori di sinistra, ma il tema lo cantavamo a squarciagola noialtri ai concerti dei Pooh.

Mica poco, raggiungere centinaia di migliaia di ragazzini con temi del genere… è la forza del pop! Di canzoni da conoscere… E aggiungo un altro esempio, da “professore”. In un corso per allertare ragazzi delle medie contro il sessismo e il rischio della violenza sulle donne proponevo qualche anno fa canzoni in tema: beh, mentre canzoni esplicite e bellissime come Io sono Michéle del mio amico Ron sulle bambine di strada lasciavano i ragazzi indifferenti (difficili? Astratte? Boh), Il silenzio della colomba dei Pooh li scuoteva.

Nel brano Negrini parla di una ragazza stuprata: una volta una ragazzina scoppiò a piangere e uscì dall’aula, e mandai una compagna a vedere. Pensavo stesse male, influenza, che ne so… Invece quella tornò e mi disse che la sua amica “aveva capito cosa significa essere violentate, e non riusciva ad andare avanti con l’ascolto”. Senz’altro quelle ragazze da quel giorno sono state attentissime, ai rischi di quella tragedia. Grazie ai Pooh! È la forza del pop, la forza della poesia nella musica, la forza di canzoni da studiare o almeno, se mi permetti di dirlo, da leggere.

Intervista di: Cinzia Ciarmatori

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