Ida Panaro
“Bammenella”
(autoproduzione / distribuzione Hukapan)
La recensione di Andrea Pedrinelli
Per la serie (mai come di questi tempi da rimarcare) “Un talento non si valuta dall’età, ma dai contenuti”, ecco lo smagliante disco d’esordio di Ida Panaro, partenopea ormai di cittadinanza milanese, attrice, insegnante, ora in età matura pure cantante. Ma con che classe, però. E con che coraggio, visto fra l’altro che il disco se lo produce lei.
Questo suo primo disco, “Bammenella”, è infatti nientemeno che un viaggio nel repertorio della tradizione napoletana, scrigno dei tesori e punto di riferimento ineguagliabile dell’intera vicenda della nostra canzone. E Ida Panaro lo affronta stando ben lontana da stereotipi, già sentito e retorica; grazie a sé stessa, alla sua voce nitida, educata, attenta, ma pure grazie al contributo di peso e novità apportato dall’arrangiatore Giuseppe Emmanuele: il quale magari non piacerà ai puristi (forse), e però dilata lo spettro di divulgazione possibile per questi classici grazie a scelte armoniche e sonore ardite, a tratti spiazzanti, sempre rispettose ma assolutamente, gustosamente “nuove”.
Ida Panaro “Bammenella”
Andiamo con ordine, però. E partiamo come ci pare giusto proprio dalle orchestrazioni, su cui la Panaro innesta la propria vocalità e la propria arte interpretativa. Emmanuele, per i brani scelti che sono per lo più ottocenteschi, con incursioni negli anni Cinquanta (di Carosone) e Sessanta del Novecento, ha puntato su atmosfere e paesaggi musicali che definisce rimandanti al repertorio operistico, quello cioè della musica popolare di allora.
Ma non ci troviamo qui di fronte all’esasperazione della melodrammaticità insita nei brani, anzi; e tantomeno a uno sguardo al passato. La liricità di Emmanuele è colta quanto scarna, moderna, attenta a non invadere linee melodiche e di canto rimanendo semmai rimando appunto culturale ed etereo, quasi acustico, di legni carezzevoli e fiati ora contrappuntistici ora teatrali ora dissonanti.
Dissonanti, sì. Perché nelle letture di “Bammenella” spuntano fuori bene pure la modernità e il jazz, o perlomeno il gusto jazzato che dai cafè chantant di primo Novecento si dilata verso atmosfere anche più vagamente internazionali e contemporanee. Sono soprattutto i fiati, con gusto, ad aggiungere ai brani un ulteriore, succoso ingrediente sonoro in tale direzione; ma anche la batteria, di tocco soft eppure molto presente, molto emotivamente incisiva, e le scelte armoniche che squadernano gli originali facendo loro assumere tinte, sfumature e pure inquietudini di modernità.
Ed in questo paesaggio notevole si inserisce alla grande Ida Panaro. La cui voce è pulita, intensa, compresa, come già accennato educata, chiaramente abituata a dar peso alle drammaturgie emotive di note e testi, ma anche -in certi passaggi diremmo soprattutto- spettacolare per come tiene ben presente il significato delle parole: di modo che quanto le accade musicalmente alle spalle (a volte dissonante, quasi sempre mai sentito prima su questi brani) non possa mutare il senso dei pezzi, ma solo dar loro un nuovo paesaggio per proporsi.
E così, alla fine, potremmo addirittura azzardare che “Bammenella” ricorda i dischi chitarra-voce della spettacolare “Napoletana” di Murolo. Non già perché vada in tal direzione, ma nella misura in cui nell’oggi si prefigge il medesimo obiettivo del grande Maestro. Ovvero far riascoltare la tradizione senza deturparla, ma collocandola in un orizzonte inedito (per Murolo l’essenzialità della composizione, per la Panaro la sua rilettura in modernità non presunta) dentro il quale possa conquistare ascoltatori nuovi, magari giovani, certo del Duemila.
In scaletta 12 brani
Dei dodici brani in scaletta, quello che più ammalia è “Era de maggio”, che tramite armonie distoniche diventa drammaturgia teatrale dolente, lontana dall’ovvio, di spessore e personalità.
Strepitosa anche “Lacreme napulitane”, trattata liricamente con alti squarci sinfonici, in cui Ida mette in mostra una voce priva di grumi popolareschi o eccessi lacrimosi, rendendo la pagina quasi mistica, davvero toccante.
Estremamente riuscito è poi il lavoro che rende ora inquieta ora ariosa, ora eterea ora carnale “Reginella”, come quello che sposta il tiro di “Te voglio bene assaje” neutralizzandone la retorica verso un lirismo moderno palesemente acceso di swing.
Ed è di personalità, sempre fra lirica e jazz, la delicatissima versione della Panaro di “Palomma ‘e notte”, colta, commovente; mentre un uso di voce anche libera su strutture vagamente jazzate proietta “Fenesta vascia” (che risale al XIV secolo, badate bene) a una modernità che non le manca di rispetto, anzi.
Ci piace poi citare la briosa, gustosa, versione di “’E spingule francese”, che oscilla fra sprazzi di cafè chantant e una profondità bandistica mai retorica; e pure il buon Carosone di “Maruzzella” viene riletto fuori da certe convenzioni gigioneggianti, facendone rivalutare l’intimismo cantautorale con un basso mediterraneo a riecheggiare bene le sue trovate senza però fargli il verso, e un tocco quasi da romanza sul finale.
Il brano che dà il titolo a tutto, “Bammenella”, è poi una faccenda quasi a sé in quanto poco conosciuto rispetto agli altri. Scritto da Viviani nel 1912, è una delle pochissime canzoni napoletane pensate per interpreti femminili: e che bella riscoperta, questo canto d’una prostituta dei Quartieri Spagnoli che in chiave teatrale alta, e su atmosfere prima sospese poi brunite, permette a Ida Panaro di recitar cantando, essendo ottimamente ora feroce ora riflessiva, ora ispida ora dolente, ora sarcastica ora ferita. Ridandoci, dunque, la corporeità vocale ed emotiva d’una vera donna del popolo nella Napoli d’inizio Novecento.
Insomma, “Bammenella” è un viaggio dal passato al futuro di grandi classici che, grazie a Ida Panaro, agli arrangiamenti e ai musicisti passano per l’anima. Non ci vengano dunque a dire che per fare cose moderne bisogna essere ragazzini, che per fare bella musica che guardi al futuro occorre essere “giovani”. Serve esser bravi, nell’arte, altro che; e saperne la storia quanto provarsi a leggerla, magari facendola propria. Quando questo Paese lo imparerà, forse in TV anziché dei Festival di Sanremo di quart’ordine e dei personaggi scadenti presentati come artisti del domani, vedremo tornare la qualità musicale che un tempo riusciva a stare accanto al pop commerciale, e che l’Italia non ha perso, no: è che i cosiddetti direttori artistici dello spettacolo di oggi -per tacer dei discografici- sono d’un vuoto culturale che fa, obiettivamente, paura.
Articolo di: Andrea Pedrinelli
Da ascoltare/guardare: “Era de maggio”
https://www.youtube.com/watch?v=Gka80gxFEpA&list=PLCbZAPs3ep34OELkXZCBYQSJMIU78t5gq
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