Carla Bley
Life Goes On
(ECM)
La vita va avanti, ci dice la signora del jazz di Oakland, ben lungi dal dimostrare la propria età anagrafica -che segnala nel 2020 il numerino 84-, in questo album intelligente, profondo e bellissimo: destinato a farci di questi tempi da stimolo vitale all’introspezione, con carezze alternate in modo sempre alto ad inquietudini, ma comunque alla fin fine capace di farci riflettere. Perché… Siamo alla fine del mondo come lo conosciamo, o non è forse questo il preludio a un nuovo inizio?
Chissà. Sarà il potere della musica, che tocca i gangli vitali dell’anima scuotendola e donandole energie insperate; sarà certo anche questo jazz colto, conscio delle pluralità stilistiche del genere, che come sempre però la Bley sviluppa non solo in totale libertà, ma anche sapendo abbinare (come pochi altri) dei contenuti precisi alle riflessioni evocate in musica: sino a veri e propri discorsi -ora intimisti ora sociopolitici- che svegliano, fanno meditare, commuovono, divertono, aprono orizzonti inediti.
“Life Goes On” è realizzato dalla compositrice nell’utero dell’alveo coeso e quasi polifonico del suo trio, un unicum a più livelli che da un quarto di secolo vede le sue idee compositive e pianistiche confrontarsi e svilupparsi con gli spunti dei sassofoni di Andy Sheppard e del contrabbasso di Steve Swallow. E l’opera è costruita dall’artista attorno a tre suite; la prima (“Life Goes On”) che pare metafora della vita in modo quantomai drammaticamente -ma salvificamente- attuale; la seconda (“Beautiful Telephones”) ch’è di piglio etico, prende le mosse dalla vacuità del primo contatto di Donald Trump con lo studio ovale della Casa Bianca (“Ma che bei telefoni!”) e riflette su come risalire dal dilagante degrado; la terza (“Copycat”) più “libera”, certo più personale e (anche) intimista, ma proprio per questo anch’essa coinvolgente, ammaliante, a tratti decisamente universale.
Nella suite “Life Goes On” Carla Bley parte da una mimesi sonora delle sincopi e della ripetitività del vivere, in approccio colto e contemporaneo alla riflessione: che nel secondo movimento apre a profondi struggimenti e ansie di fuga e, dopo un viaggio dentro la trasposizione musicale del vivere l’esistenza umana, fa approdare al finale “And Then One Day”, e alla fine un giorno…, che è inevitabilmente melanconico nei suoi vaghi riferimenti sudamericani, ma anche quando strappa o si rarefà trattiene sempre squarci solari, sino a ergersi sacrale.
Come ogni vita, specie al tramonto.
In “Beautiful Telephones” si parte sospesi, come tutte le anime sensibili l’autrice pare interrogarsi su dove sia un riscatto dalla banalità, ed in “II” ecco un crescendo spirituale capace pure di farsi muscolare, sanguigno, non per caso nervoso e polemico; sino -in “III”- a un approdo swingato che risolve la denuncia anche nell’ironia, sottolineando al contempo che risposta appropriata alla decadenza non è, non deve essere, un compiacersi del buio limitandosi a gridarne la presenza.
“Copycat” infine è inizialmente quasi canzone, lirica e intensa, con interessanti colori di scrittura; passa per 17 secondi di “scherzo” (per piano e poco più) con sottile retrogusto satirico; e al culmine si slancia verso un finale sereno, a tratti brillante, mai retorico o banale in quanto figlio di valori precisi dell’anima e d’indizi forti -nell’uomo- per un possibile e concreto nuovo inizio delle cose. Firma finale d’un’arte di freschezza diremmo giovanile, faccenda che -credete- può servirci e consolarci assai, di questi tempi.
Articolo dim Andrea Pedrinelli
Da ascoltare/guardare, “Life Goes On” prima parte (“Life Goes On”):
https://www.youtube.com/watch?v=ElLEU9ry2-8&list=PL8uYUZuhS6fmendlBy1yt8BN6lJu6LtaQ