È stata la mano di Dio è l’ultima pellicola di Paolo Sorrentino, vincitrice del Leone d’argento e scelta per rappresentare l’Italia al Premio Oscar. È un film che, per la sua stessa natura, diverge da gran parte della filmografia del regista, assumendo una sfumatura autobiografica. La malinconica maturità di Jep Gambardella e Titta Di Girolamo, lascia spazio alla spensieratezza della gioventù di Filippo Scotti, nel ruolo di Fabietto – proiezione ringiovanita dello stesso Sorrentino – bruscamente interrotta da una tragedia che cambierà radicalmente il futuro del protagonista.
“È stata la mano di Dio” di Paolo Sorrentino
Che la rappresentazione di Sorrentino fluisca continuamente dal sacro al profano, risulta ovvio sin dall’inizio del film; così come risulta ovvio che quella che ci si appresta a vedere non sia una commedia, né un dramma avvolto dalla solita patina di mera finzione, capace di creare distanza e senso di sicurezza. Quello che sembra raccontare Sorrentino, filtrato comunque dalla trasposizione da realtà a finzione, è un sogno e la fine di esso. Un sogno, quello dell’adolescenza, di cui si ricordano ancora scherzi e giochi, suoni e sensazioni, come un romantico fischio di intesa tra marito e moglie, il dolce ma deciso suono di un motoscafo a contatto con l’acqua; o ancora il ricordo dei primi fremiti innocentemente perversi della pubertà. Il tutto comunque travolto e stravolto da un dramma che inevitabilmente porta squilibrio e cambiamento nell’animo di un ragazzo che fino a quel momento aveva solo osservato.
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Recensione di: Ignazio Rotolo