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“Pop, rock, jazz… e non solo” Kefaya & Elaha Soroor Songs of Our Mothers


Kefaya & Elaha Soroor
Songs of Our Mothers
(Bella Union/Self)

            Molto interessante e pure riuscito, questo incontro sulle strade della musica fra i suoni della contemporaneità e la tradizione afghana, con tutte le sue eco indiane e cinesi, all’interno di un progetto di valorizzazione del femminile e denuncia della sua emarginazione.

Grafica Divina

A portare l’ascolto verso le suggestive “canzoni delle nostre madri”, afghane, citate dal titolo sono il duo londinese Kefaya, composto da Al McSween e Giuliano Modarelli (ma non solo, loro sono le teste pensanti però in pratica è un collettivo) e la cantante afghana d’etnia Hazara Elaha Soroor: i primi attivi già da qualche tempo e già sul fronte d’una musica che all’occorrenza sappia anche denunciare storture, arretratezze e quant’altro; la seconda che è stata la prima donna della sua etnia a osarsi in un talent, ed è poi dovuta sfuggire persino a degli attentati per il suo attivismo a favore della condizione femminile (e non solo, visto che ha anche cantato contro la lapidazione).

In questo progetto insieme, correttamente battezzato -dalle tante recensioni a cinque stelle ricevute nel mondo- di “gobal fusion” con tutte le sue eco jazz, dub, classiche, elettroniche oltre che etniche, Kefaya ed Elaha innestano miriadi di spunti e suoni dell’oggi sulle canzoni che da sempre in Afghanistan vengono tramandate da madre a figlia: testi dunque di gioia e dolore, ma anche di resilienza e rivendicazione della femminilità e persino di sana sensualità; tutte faccende che la cantante dedica, presentando il progetto, “alle donne dimenticate o cancellate”, riferendosi anche (ma non solo) agli esiti nefasti nel suo Paese di guerra civile prima e occupazione talebana poi.

Detto della bellezza a volte struggente di questi canti tradizionali, e della voce ammaliante, ricca di chiaroscuri e sensualità, della Soroor, chiaramente il punto di forza che rende “Songs of Our Mothers” anche un disco d’oggi nonché un’occasione di scoperta, denuncia, conoscenza, divulgazione, è il “come” tali canti sono stati lavorati.

E da questo punto di vista, due brani molto efficaci per sintetizzare d’acchito l’opera ci paiono intanto “Charsi”, forse il più immediato del disco, che parte da dub ed elettronica, poi graffia l’etnico con il rock, e insomma è come se proponesse un viaggio di base in tutte le screziature possibili del CD; indi segnaliamo “Khina Beyarin”, dove invece è la voce a svelarsi in tutte le sue sfumature, sempre bella ed intensa a livello interpretativo-comunicativo, su un impianto musicale trattato in modo intrigante sino a una deflagrazione palesemente jazz.

Il jazz, peraltro, è forse il colore che meglio i Kefaya sanno maneggiare, nel pur vasto caleidoscopio del percorso; o quantomeno così parrebbe a giudicarne la vetta, “Gole Be Khar”, intarsio fascinoso di basso battente, tappeti elettronici, ritmica esplosiva, col flicorno della guest Yazz Ahmed che apre l’Oriente a un cool jazz di milesdavisiana memoria.

Ma convincono un po’ tutti, i brani del disco: il rock etnico pesante a tratti hard di “Jama Narenji”, il duo chitarra-voce a “song” (con la chitarra usata come fosse un sitar) di “Gole Sadbarg”, l’inaspettatamente mediterranea “Do Chasmane Siyah”, la spirituale, tesa, misteriosa “Lalay Lalay” palesemente a cavallo di più mondi. E ci piace citare anche “Bolbi”, brano estremamente affascinante nel suo iniziale minimalismo voce-strumenti tradizionali, con a un certo punto l’innesto d’un clarino che sposta tutto verso le suggestioni sonore tipiche prima dell’hard bop, poi addirittura del free jazz.

Ad accompagnare Kefaya ed Elaha Soroor nel viaggio e nelle denunce (attenzione soprattutto ai temi multiculturali, attualissimi, di “Gole Sadbarg” o “Lalay Lalay”) figurano anche diversi ospiti importanti: oltre alla già citata Yazz Ahmed, giovane trombettista britannica d’origine persiana, spiccano il cantante iraniano Mohsen Namjoo (qualche tempo fa visto in Italia con i suoi progetti belli e coraggiosi) e la violinista indiana Jyotsna Srikanth, questi ultimi coprotagonisti in modo maiuscolo proprio della finale “Lalay Lalay”.

Articolo di: Andrea Pedrinelli

Da ascoltare/guardare, “Gole Be Khar”:
https://www.youtube.com/watch?v=mPjHrmszn7A

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Critico musicale e teatrale, è giornalista dal 1991 e attualmente collabora con Avvenire, Musica Jazz, Scarp de’ tenis, Vinile. Crea format tv e d’incontro-spettacolo, conduce serate culturali, a livello editoriale ha scritto importanti saggi fra cui quelli su Enzo Jannacci, Giorgio Gaber (di cui è il massimo studioso esistente), Claudio Baglioni, Ron, Renato Zero, Vasco Rossi, Susanna Parigi. Ha collaborato con i Pooh, Ezio Bosso, Roberto Cacciapaglia e di recente ha edito anche Canzoni da leggere, da una sua rubrica di prima pagina su Avvenire dedicata alla storia della canzone.

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