Israel Varela
The Labyrinth Project
(Via Veneto Jazz/Jando Music)
Bel personaggio, Israel Varela: batterista-percussionista messicano figlio d’arte (il padre è pianista classico), nonché unico allievo del grande Alex Acuña che gli amanti di jazz e musica con la maiuscola ricordano nei Wheater Report come accanto a Paul McCartney.
Israel, il cui tocco batteristico è sfaccettato tanto da essere persino quasi melodico, è più vicino ai Wheater Report come mondo, che non a Sir Paul; e senz’altro guarda più al jazz che al rock, semmai unendovi eco di certa musica contemporanea colta che va ben oltre ciò che viene spesso banalizzato sotto la definizione e i limiti della New Age.
Dunque va nella direzione d’un jazz “aperto” all’introspezione, e verso una composizione-improvvisazione colta e spirituale, il suo nuovo lavoro “The Labyrinth Project”: in cui dentro un affiatato quartetto l’artista dilata il suo cosiddetto batterismo “jazz-flamenco” esplorando mondi sonori anche lontanissimi fra loro, col fine esplicito ed extra-musicale di spingere l’ascoltatore a esplorare la propria interiorità.
Il “labirinto” del titolo, infatti, è secondo Varela declinazione nella psiche umana del significato storico-simbolico di quel luogo mitico: così questo suo disco “progettato” in forma labirinto voleva essere (e per chi ascolta dovrebbe restare) ipotesi d’un viaggio nel sé. Per uscire dagli egoismi e alla fine del percorso tornare dentro il mondo, assieme agli altri “io”, con rinnovata e maturata coscienza di sé stessi. Per compiere tale percorso in musica Varela, prodotto dall’eccellente etichetta Via Veneto Jazz che difficilmente sbaglia cavalli su cui puntare, è affiancato dal sax tenore pulito e intenso di Ben Wendel, dal pianoforte a tratti irrefrenabile di Florian Weber e soprattutto dallo strepitoso contrabbasso di Alfredo Paixão, virtuoso brasiliano che ha suonato con Henri Salvador e Liza Minnelli, Pino Daniele e Julio Iglesias, e che finisce col diventare sommo punto di forza dell’insieme fra solismi incantevoli e solidissime ritmiche d’accompagnamento.
L’album del gruppo, tutto inciso dal vivo in studio senza sovraincisioni, e tutto composto da Varela eccetto due brevi brani di transizione, è -come da intenzioni- vero e proprio viaggio. E viaggio talmente riuscito che non solo si può godere a più livelli, ovvero sia come ascolto di classe con guizzi a go-go che come spunto per affrontare personali discese nell’interiorità; ma addirittura -complici certi magici colori dell’improvvisazione, valgano per tutti quelli di basso e pianoforte in “Cuatro”- a tratti ci si chiede come sia possibile, seguire le indicazioni di Varela e lasciarsi andare alla meditazione introspettiva, di fronte a tanta meraviglia d’ascolto.
La citata “Cuatro”, ultima traccia del CD, è una delle più valide dell’insieme, forse la più ricca d’alternanza fra momenti umbratili e sussurri, con passaggi caleidoscopici che echeggiano più linguaggi; ma colpisce anche “All Directions”, che dipanandosi dalla tastiera di Weber s’allarga libera e un po’ acida in modo stimolante, sino a momenti bassistici di spessore estremo che la colorano di fantasia. Molto azzeccata, in sé e per la meditazione, pure la frastagliata “Flowing Wind” con cui il disco apre; qui il sax allarga le atmosfere, la voce di Varela evoca toni quasi sacrali o quantomeno spirituali, e fra un groove magnifico e i continui stimoli offerti da sax e piano il sound del gruppo, una sorta di Be-bop colto scuro e nervoso, apre e chiude continuamente orizzonti, pensieri, approfondimenti della mente.
Avete letto “voce”, sopra: sì, non era un errore. Ché Varela qui sperimenta, in una sorta di fusion estremizzata, anche il canto o quantomeno un vocalese sommesso: che aggiunge tinte all’arcobaleno del viaggio qua e là, ma riesce soprattutto nell’allure a chanson di “Azul”, quando un testo spagnolo ben s’interseca con gli equilibrismi del sassofono. Forse però il punto più alto del viaggio e dell’album sta in “Heliópolis”, gioco di contrasti con tutti gli strumenti prima o poi primattori, coinvolgente e brunita cavalcata più Hard che Be-bop, con sperimentalismi sonori che permettono al gruppo d’alternare, e a noi di penetrare, chiari e scuri, orizzonti e paure, vortici e serenità, in una sorta d’ora incalzante ora meditabondo viaggio insieme tattile e sottopelle, nella musica come elemento fisico e nelle mille sue emozioni possibili.
Detto che nella scaletta s’annida anche una provocazione ulteriore, quasi “free”, scontrosa e complessa, che reca il titolo di “Nueve Secretos”, bisogna sottolineare per chiudere che oltre a essere riuscito tanto bene nel suo intento da incatenare l’ascolto, prima ancora che stimolarlo verso ulteriori viaggi interiori, con questo “Labyrinth Project” Israel Varela non esce dal jazz: come d’acchito si sarebbe potuto pensare fra le note di copertina e l’afflato iniziale del primo brano. Semmai, osa sperimentare nel jazz obiettivi differenti da quelli del genere e tipici di solito sia di quella New Age che però troppo spesso sterilizza la musica in stereotipi sonori, sia di quella che viene definita senza se e senza ma musica classica contemporanea.
Nel caso di Varela, la sua pare proprio (quasi) musica colta d’oggi; il “ma” permane, visto che permane l’improvvisazione, però certo il suo è un jazz coraggioso e nuovo, un tentativo riuscito di mirare a prospettive più alte di quelle abituali, a orizzonti ancora piuttosto inesplorati.
Articolo di: Andrea Pedrinelli
Da ascoltare/guardare, “Heliópolis”:
https://www.youtube.com/watch?v=c5wM6leL-kE&list=OLAK5uy_meuzh6vrNQLJviCi_dE0FVtozZMPyCVjM&index=6&t=0s