Leonard Cohen
Thanks For the Dance
(Columbia/Legacy)
“Ho sempre lavorato, ma non l’ho mai chiamata arte… Niente favole né lezioni, sono solo un mendicante che s’interroga su ciò che accade al cuore”.
Questi sono solo alcuni dei primi versi, che definire toccanti è poco, coi quali Leonard Cohenha voluto accomiatarsi dal mondo: e che venerdì 22 potranno giungere a chiunque nell’album postumo del grande artista canadese, voluto in prima battuta da egli stesso e poi da suo figlio Adam, che l’ha realizzato. Il disco s’intitola “Thanks For the Dance”, grazie del ballo, dal titolo di una delle sue pagine più intense che pare proprio un finale saluto alla vita, ma sereno, orgoglioso e fors’anche un poco ironico. “Grazie del ballo, mi spiace che tu sia stanca… Ballando io ero davvero io, tu davvero tu, è stato divertente”.
E per una volta l’album postumo di un gigante della canzone d’autore non è una faccenda triste che puzza di marketing necrofilo, che magari è stata messa insieme con scarti e provini malriusciti, cui l’artista forse è stato costretto a lavorare sino all’ultimo giorno con voce sempre più irriconoscibile. Del resto di disgrazie come queste ne abbiamo subite a iosa, e spesso pure in nome di artisti che comunque riuscivano a lasciare dei segni, per quanto erano grandi anche in punto di morte; anche se i loro ultimi graffi erano stati tenuti apposta da parte per il “dopo”…
Nel caso di Leonard Cohen, la faccenda è molto diversa. I brani inclusi ora in “Thanks For the dance” l’artista non li aveva ancora terminati, quand’è mancato, solo perché li aveva pensati differenti per atmosfera da quelli che invece aveva voluto includere in “You Want It Darker” uscito nell’ottobre 2016: appena prima della sua scomparsa. Però Cohen li aveva scritti, questi brani, mirando a farne canzoni da pubblicare; tanto che, conscio della propria situazione, ne aveva inciso i testi lasciando al figlio il compito di completarli, rifinirli e poi metterli sul mercato. Come un disco “normale”, certo come un album voluto sino in fondo.
Adam Cohen, dei nove inediti che ora compongono l’album d’addio del padre non aveva però moltissimo oltre a testi e tracce vocali più recitate che non cantate (in qualche caso però una melodia precisa c’è, come si coglie bene in “The Night of Santiago” o nella title track). Tanto che alla BBC l’11 novembre Adam ha spiegato come segue, cosa abbia dovuto fare per rendere le ultime incisioni di Leonard un album vero.
“Abbiamo creato la musica per canzoni di cui avevamo pochissima parte melodica, poi abbiamo iniziato a pensare come riportare mio padre con noi e lì c’è venuto spontaneo riutilizzare tecniche musicali che negli anni l’hanno contraddistinto”. Indi, aggiungiamo noi, le melodie – composizioni rispettose e trattenute – sono state incise seguendo le tecniche di cui sopra – arrangiamenti dalle eco pensate, punteggiature sonore ben precise quanto delicatissime, atmosfere che avvolgono le tracce vocali senza sovrastarle né schiaffeggiarle di ridondanze – da Adam stesso e da diversi ospiti: amici suoi, collaboratori del padre, comunque figure di spessore i cui nomi vanno da Damien Rice a Richard Reed Parry degli Arcade Fire, da Daniel Lanois a Jennifer Warnes, da Beck a Javier Mas, dal coro Cantus Domine all’Orchestra Stargaze di Berlino.
E si è giunti così infine a un disco di canzoni non solo rispettose (e dei testi e della storia musicale di Leonard Cohen), non solo credibili ma proprio belle; e d’una dolcezza alta, figlia com’è d’una ispirazione finale serena e romantica in cui davvero sembra che Cohen (non un Cohen malato o senza fiato, sia chiaro) abbia viaggiato insieme ai musicisti in quel mondo da sempre suo nel quale atmosfere melanconiche e certi chiaroscuri a tratti cupi lasciano però qui, per una volta, stravincere la poesia, una lievità quasi sacrale, una solarità intelligente colma di squarci speranzosi e persino di tenerezze.
Insomma: questo album purtroppo finale di Leonard Cohen non è il solito disco postumo, una raccolta di hit o una messa in fila di cose lasciate da parte; non è lo sfruttamento della memoria di un gigante. È invece l’ultimo vero atto della sua storia artistica, un disco da lui scritto e pensato che si è dovuto solo portare a compimento.
E al di là dell’effetto straziante e bellissimo che Cohen sia ancora fra noi che si ha ascoltandolo; oltre la serenità dell’altra importante dichiarazione del figlio (al quotidiano di Israele “Yediot Aharonot”) con cui grazie al cielo ha chiarito che “Non ci saranno altri album, quando un grande muore si cerca ogni scarabocchio da svendere ma in questo caso non ci sarà nient’altro”; al di là di tutte queste cose… Siamo davanti a un grande disco di un grandissimo Leonard Cohen, ispirato sino in fondo.
L’album parte con l’alto e toccante commiato-dichiarazione d’intenti di “Happens To the Heart” che vi abbiamo anticipato sopra, una carezza piano e voce sia di accettazione del vivere che del valore assoluto d’impegnarsi per un’arte sincera e umile. Poi “Moving On”, col mandolino a punteggiare la voce di Cohen, sposta l’accento del commiato sull’amore, in modo intenso quanto sconvolgente: per bellezza e squarci di mistero che apre a livello poetico; mentre sul finale diviene quasi un inno sacro la scura “The Night of Santiago”, più densa di suoni ma sempre rarefatta, in modo misterico e volutamente spirituale. Il valzer assorto e dolce di “Thanks For the Dance” ci restituisce il Cohen classico: laddove tale definizione significa d’una cifra musical-poetica originale, compiuta e inimitabile.
E un’altra atmosfera “alla Cohen”, impareggiabile, avvolge in crescendo un canto del morire (ché “It’s Torn”, tutto è strappato, quello è) che sa incredibilmente, saggiamente, profondamente evocare e ridarci serenità. E mentre “The Puppets” scherza sul nostro sociale di finzioni e manipolazioni, e “The Hills” con le sue aperture accarezza l’anima, il capolavoro “The Goal”, punteggiato dal piano e poco più, mostra la grandezza d’un poeta che sapeva persino adombrare la morte ma quasi sorridendo, e con un’empatia commovente nei confronti della comune condizione umana. Il testo di “The Goal” spiega bene, perché il Nobel avrebbe potuto senza tema andare a Cohen anziché a Dylan, col suo testimoniarci come in pratica Cohen aveva osato immaginarsi gli ultimi istanti: in un’escalation di emozioni, smarrimenti e intuizioni da brividi.
“Non posso lasciare la casa, ma non sono solo… Non posso bloccare la pioggia, non posso fermare la neve… Sono quasi vivo, sono quasi a casa… Nessuno più da seguire, niente da insegnare, se non che l’obiettivo finale non è all’altezza delle nostre possibilità”.
La chiusa dell’ultimo disco di Leonard Cohen è poi elegiaca, sospesa, ancora una volta carezzevole. Ma è anche l’unica volta che forse il Maestro dobbiamo contraddirlo. Perché quando in “Listen To the Hummingbird” ci saluta dicendo “Ascolta il volo del colibrì! Ascolta la farfalla! Ascolta loro, non ascoltare me”, beh…
Eh no, caro Leonard Cohen, questo non ce lo puoi chiedere. Specie ora che davvero il sipario sulla tua arte l’hai fatto calare, soprattutto adesso che con questo tuo voluto ultimo album, ancora una volta, ci squarci l’anima. Commovendola e carezzandola con la tua voce, la tua musica, la tua poesia.
Articolo di: Andrea Pedrinelli
Da ascoltare/guardare, “Happens To the Heart”:
https://www.youtube.com/watch?v=2AMMb9CiScI