Home Da conoscere Dedicato a Enzo Jannacci… il libro di Andrea Pedrinelli

Dedicato a Enzo Jannacci… il libro di Andrea Pedrinelli

Andrea Pedrinelli è giornalista e scrittore musicale, da poco in libreria per Giunti Editore un bel libro su Enzo Jannacci dal titolo Roba Minima (mica tanto). Ecco cosa cosa ci ha detto in proposito l’autore.

Hai dedicato un libro da poco uscito ad Enzo Jannacci che, a differenza di Gaber e De Andrè e nonostante una simile profondità di pensiero ha avuto una sorte diversa… come mai secondo te?

Grafica Divina

Perché è stato meno collocabile nella sua libertà di scrivere dell’uomo e per l’uomo, pur essendo altrettanto poetico dei colleghi e per certi versi artisticamente superiore. Dato che scriveva da solo… Con Fo infatti ha scritto venti canzoni (su 233 totali) e con Viola una quindicina. Ma vorrei essere molto chiaro, su questo punto, onde evitare critiche dai fan di De André, artista che stimo moltissimo, e dai gaberiani, di cui faccio parte.

Peraltro del Signor G sono la persona che quantitativamente ha fatto di più, per tutelare la memoria e analizzare il lascito culturale. Quindi nessuno può dire che non adoro Gaber. Ma De André usava comunque la forma-canzone e l’arma della poesia, ed era anarchico: da un lato dunque è sempre stato proponibile (anche paradossalmente, viste le denunce da lui osate..) sui media, dall’altro si è inserito in una corrente intellettuale che ha un suo pubblico e una vasta credibilità filosofica. Mentre Gaber, scegliendo il teatro, ha scelto anche di rivolgersi a un pubblico preparato, colto, raffinato.

E’ stato coraggiosissimo, certo, ma al tempo stesso si esprimeva dentro un guscio che in parte lo riparava. Non parlava di mafia a Sanremo o di emarginazione a Canzonissima, per intenderci. Inoltre, parlando anch’egli di politica, in modo libero ma sicuramente esplicito, è diventato un punto di riferimento dei media: sia in senso positivo (fin dai titoli i suoi spettacoli smuovevano veri e propri dibattiti) che però in senso negativo.

Basti pensare a come l’hanno usato la Padania, Capanna o certi ambienti radical-chic. Enzo invece parlava dell’uomo, andava incontro all’uomo, lo faceva nei canali più popolari senza mai prendere posizioni né intellettuali né ideologiche, e usando l’arma dell’ironia o l’esplicita denuncia. Quindi non poteva piacere ai radical-chic (al Piccolo Teatro è entrato da protagonista solo nel 2006!) né alla critica militante in cerca di slogan e snobismo; e al contempo la massa o non ne capiva i sottotesti o ne rifiutava le denunce più nitide.

Non per nulla, lui si sentiva più vicino al voler comunicare senza snobismi di Baglioni che a quello dello stesso amico Gaber. Però in quell’ambito mediatico, da Sanremo alle hit, la sua poesia, la sua sincerità, la sua lucidità, il suo coraggio non potevano avere molta fortuna. Anche se fu lui a togliere dalla nicchia ideologica “Ho visto un re” (me l’ha detto Fo) o a denunciare il rischio della dittatura televisiva nel 1974. Sì, il 1974, hai sentito bene.

Come hai costruito questo saggio? Come si presenta al lettore?

Considerando la musica “leggera” come patrimonio culturale, come accade con Brel in Francia o Cash in America. Quindi approccio scientifico di ricostruzione dell’opera e sua messa in ordine come fosse un catalogo d’arte, con testimonianze, interviste ad Enzo, dati e aneddoti canzone per canzone e disco per disco.

Tutto però scritto in modo semplice, perché sia “consultabile”, e leggibile sia aprendo a caso, come un’enciclopedia, sia scoprendo uomo e canzoni pagina dopo pagina. Ringrazierò sempre Riccardo Bertoncelli e Giunti di aver apprezzato questo approccio, anzi Riccardo mi ha esortato ad approfondire sempre più. Bisognerebbe farlo su tanti dei nostri artisti, prima che ci dimentichiamo della loro grandezza come sta accadendo con Modguno, Endrigo, Lauzi, Bertoli ma anche Mia Martini, Dalla, i Cetra.

E il discorso vale anche per chi ancora vive, e ha dimostrato di saper leggere le epoche facendo loro colonna sonora, dal modo colto di un De Gregori al modo “leggero” di gente come i Pooh. La musica del Novecento va storicizzata, per non perderne le grandi intuizioni e ricordarne il portato quantomeno sociale e di costume.

Cosa hai trovato lungo la strada della ricerca dei materiali?

Tante cose interessanti, anche se il centro del libro sono le tante cose che Enzo ha detto a me e il mio vasto archivio di interviste e articoli su di lui. Però ho scoperto la verità sul rapporto con Viola, il jazz come modo di essere autore, canzoni mai sentite e difficilmente sentibili come quella su piazza Fontana, i veri significati di “Ci vuole orecchio” o “L’arcobaleno”, come nascevano i suoni, come sono nati certi pezzi storici, alcune censure… E soprattutto ho visto tanto amore. Chiunque ho interpellato mi ha risposto subito “Per Enzo, qualunque cosa”.

Da Fo o Cochi ai turnisti dei dischi. Confesso che se interroghi le persone nel mondo della musica su altri, di solito c’è diffidenza, anche invidia. Ma Enzo umanamente era un’altra roba, evidentemente. E ben poco minima, giusto per parafrasare il titolo del libro.

Tu che lo hai conosciuto, approcciandoti all’approfondimento hai scoperto qualcosa di lui che ti ha sorpreso?

Dell’uomo no, era facile parlandogli capire la profondità e i valori. Però mi ha colpito una cosa uscita dalle testimonianze di chi ha lavorato con lui negli anni Sessanta. Enzo era Jannacci fin da subito. Fin dal jazz, fin dal provino per lo spettacolo in milanese “Milanin Milanon” del 1962. Non ha avuto bisogno di crescere, aveva dentro già tutto il suo mondo. Comprese originalità e genialità. E a quel mondo, che aveva anche una profonda etica figlia della triade altruismo-rispetto-dignità di cui mi parlava sempre, è stato coerente sempre. Anche di fronte alle porte in faccia, alla definizione di clown, al fraintendimento del suo stesso essere medico vero. Una delle cose, questa, che è stato più difficile, ma anche più bello, riuscire a farmi raccontare sul serio da un suo collega di corsia.

Il libro è impreziosito da materiale fotografico inedito…

pensa che sono dischi miei, tutti. Alcuni che ho fatto una fatica tremenda a reperire. Ma ho scritto ascoltando, non per sentito dire. E poi ci sono due foto tenerissime del primissimo Enzo che mi hanno regalato Nando de Luca, suo arrangiatore e valente pianista jazz, e Franca De Filippi, la figlia del grandissimo armonicista Bruno. Le foto le ho volute per fare un piccolo viaggio in un mondo, che purtroppo non c’è più, in cui la cultura musicale era oggetto fisico, e la sua arte visiva rimandava ai contenuti poetici e musicali. Oggi mi piace che quell’inserto di immagini contenga “Il cane con i capelli”, Enzo lo adorava ed eravamo diventati “amici” parlando di quel suo assurdo provino Rai, e si chiuda con uno Jannacci bellissimo con i capelli bianchi.

Quello che ho conosciuto, quello che mi ha detto “Non si traffica con la coscienza, Pedrinelli. Mai”. A uno così come fai a non dedicare un libro, se è il tuo mestiere, se lui è stato coerente con quelle parole pagandone le conseguenze per primo? Non va dimenticato, Enzo Jannacci. E sono contento che Paolino, suo figlio, mi abbia ripagato con un abbraccio. Vale di più di una prefazione firmata, che peraltro non ho mai cercato da lui. Mi basta aiutarlo a tenere vivo il suo papà. Che era un genio, ma soprattutto una persona stupenda, gentile, timida… Vera, con ben chiaro in testa il significato delle parole, dei valori, del senso politico che sempre dovrebbero avere le nostre azioni nel mondo. Anche facendo canzonette. O libri su di esse…

Intervista di: Cinzia Ciarmatori

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