In libreria per La Nave di Teseo “Il periodo del silenzio” il nuovo romanzo di Francesca Manfredi. E propri con lei abbiamo voluto approfondire alcuni temi di questa sua intensa storia.
Cristina Martino la protagonista del tuo romanzo “Il periodo del silenzio” decide di allontanarsi via via dai social, di cancellare mano a mano le tracce di sé dal mondo virtuale, lei lavora in una biblioteca. Che rapporto c’è tra questa decisione e il silenzio?
Il silenzio per Cristina è una forma di sparizione dal mondo, una forma di rifiuto e opposizione che parte da una dissonanza. Cristina prima si toglie dai social perché le causano fastidio e insoddisfazione, poi capisce che il problema – quella dissonanza, quel vuoto comunicativo che avverte – non sta davvero lì, ma nella vita reale. Cristina dice: “L’unico modo per rispondere al vuoto, quando non hai di che riempirlo, è togliere ancora.” E così, dal silenzio virtuale passa a un rifiuto completo della parola, dove essa rappresenta l’interazione principale tra gli esseri umani, la ragione cardine del suo malessere. L’eliminazione dei social è solo il primo passo di un percorso: il più facile, se vogliamo, e per questo, mi sembrava, più immediato e necessario, per una ragazza di quasi trent’anni.
In un momento in cui tutto è pubblico, tutto viene esibito cosa rimane privato?
Io sono cresciuta in una città piccola, e ho sempre sofferto alcune logiche di provincia. Nei piccoli centri, dove tutti si conoscono, si tende più facilmente a ficcare il naso nelle questioni altrui, a trarne conclusioni e giudizi affrettati. Da ragazzina mi spaventava l’idea che le persone potessero apprendere dettagli della mia vita per sentito dire, senza che io ne avessi controllo. Sui social queste dinamiche riaffiorano, diventano fondative. Personalmente ho subito l’avvento dei social media con fastidio e avversione, proprio perché andavano ad attingere da un bisogno che sentivo distante. Adesso ammetto di essermi in un certo senso adeguata, di aver fatto pace con certe paure. Cristina invece no. Nel libro mi limito a raccontare la sua storia, per dare un punto di vista e riflettere sui paradossi che ci circondano, sui social ma anche nel mondo reale.
Cosa hai imparato da Cristina?
A farmi più domande, a dire di no, ad ammettere quando non so qualcosa. Certamente Cristina è un personaggio disperato, estremo, radicale, ma è anche una ragazza caparbia, che nega agli altri ciò che si aspettano da lei senza per questo prevaricarli, anzi: lo fa nella speranza di guarirsi. Allo stesso tempo, però, ho imparato anche a non dare retta a certi lati autodistruttivi di me. La comunicazione assertiva è qualcosa di difficilissimo, per il mio carattere, ma fondamentale.
A livello di scrittura, ho imparato a lasciarmi andare. Cristina, seppur attraverso una costrizione, si libera: così io ho deciso di abbandonare una serie di paure, di remore e di costrizioni che non sopportavo più. Ne avevo bisogno. È decisamente la cosa più libera che ho scritto finora.
Si dicono/scrivono tante cose ma la vera condivisione dov’è?
Quella che prende davvero in considerazione l’altro, come l’etimo della parola prevede. E non solo come spettatore passivo. Nonostante le promesse della rete, ho l’impressione che ci stiamo allontanando sempre più dall’idea di comunità, e credo che ormai si faccia molta confusione su cosa sia bene comune e cosa individuale.
Qual è stata la sfida maggiore di questo libro?
Trovare la voce di un personaggio che la perderà. Rendere lo sguardo di Cristina (che è rivoluzionaria e reazionaria insieme, come mi è stato fatto notare) acuto ma non presuntuoso. Portare avanti la narrazione di un vuoto – sociale, in particolare. Scavare nel profondo di un personaggio che per certi versi, purtroppo, mi assomiglia, andare a toccare quel vuoto con mano.
Cosa è rimasto fuori?
Poco, in realtà. Qualche riflessione che mi sembrava ridondante, perché la mia paura più grande, all’inizio, era che la scelta di Cristina risultasse pretestuosa. In fase di riscrittura ho cercato invece di definire meglio il lato psicologico del personaggio, che all’inizio mi sembrava poco accennato. La revisione maggiore, però, è stata sulla forma perché, come dicevo, in prima stesura ero andata a briglia sciolta, cosa che non mi era mai successa prima.
Da leggere Il periodo del silenzio
La Nave di Teseo
di Francesca Manfredi
Intervista di: Elena Torre