Luca Cenisi (Pordenone, 1983) è fondatore e Past President dell’Associazione Italiana Haiku (2012-2016) e della European Haiku Society (2014-2016).
Ricercatore e saggista ha all’attivo numerose pubblicazioni ed è considerato tra i massimi esperti di poesia haiku a livello internazionale. (http://www.lucacenisi.net/)
Quando e come avviene il tuo incontro con la poesia giapponese?
Il mio incontro con la poesia giapponese – e con lo haiku, in particolare – risale ormai a diversi anni fa, all’epoca in cui avevo appena terminato gli studi superiori. E, come ogni grande amore, è stato in buona parte frutto del caso.
A quel tempo il mio interesse principale era rivolto alla poesia moderna e contemporanea, in particolare quella americana; mi sono così imbattuto nel Libro degli haiku di Jack Kerouac e, volendo capire a fondo cosa fossero questi “haiku” cui l’autore aveva tratto ispirazione, ho iniziato a raccogliere informazioni sull’argomento.
Ho recuperato quanti più libri e articoli possibile (i primissimi volumi sono stati il “classico” Haiku, curato da Elena Dal Pra per Mondadori e La letteratura giapponese del prof. Marcello Muccioli) e, man mano che li consultavo, sentivo qualcosa aprirsi dentro di me. Si trattava di una nuova consapevolezza, un orizzonte di unità più vasto che mi spingeva inesorabilmente al suo centro ad ogni lettura.
Da lì il cambio di rotta – dapprima parziale, poi definitivo – verso la poesia giapponese, soprattutto haiku e tanka 短歌 (‘canto breve’), con il desiderio di approfondire sempre più le sue origini storiche e le caratteristiche sia di forma che di contenuto.
Ho anche iniziato a scriverne di miei, pubblicando Il fiore e lo haijin nel 2009 (per i tipi di Ibiskos-Ulivieri) e Selezione naturale nel 2018 (La Ruota Edizioni). Lo iato tra le due date è dovuto alla fondazione dell’Associazione Italiana Haiku (AIH), avvenuta nel 2012, che ha richiesto tempo ed energie, ma che ha rappresentato l’apice del mio interesse per questo genere poetico, insieme all’inaugurazione delle riviste Haijin Italia e Makoto (quest’ultima dedicata esclusivamente allo haiku in lingua inglese).
Con l’AIH è nato anche il Premio Letterario Internazionale Matsuo Bashō e, nel 2016, il primo kukai 句会 (‘incontro di haiku’) italiano, che vorrei riproporre a settembre di quest’anno.
Quali sono i tratti stilistici della poesia haiku che ti affascinano maggiormente?
Lo haiku mi affascina nel suo complesso, per quella sua capacità di aprirsi ad una moltitudine di esiti interpretativi tutti egualmente condivisibili e familiari. È come essere in balia di una corrente che non produce alcun suono. Questo dipende in parte senz’altro dall’estrema brevità (o, meglio, dalla “riduzione espressiva”) di questo genere poetico, ma anche da altri fattori, sia strutturali che, soprattutto, estetici.
Lo haiku “tradizionale” (isolato, per ora, da ogni variazione “moderna” o gendai 現代), com’è noto, deve contemplare un preciso riferimento stagionale (il cosiddetto kigo 季語 o ‘parola della stagione’), che funge da medium per l’attualizzazione dell’esperienza sensibile legando l’individuo e il contesto naturalistico circostante in maniera sincera e profonda. Mi affascina dunque molto lo studio di questo legame, anche alla luce di ciò che esso rappresenta a livello storico e socio-culturale, specialmente per i giapponesi.
Credo anch’io, tuttavia, come altri critici (penso, fra tutti, a Kiyoko Uda o Teiko Inahata), che l’aspetto strutturale chiave di uno haiku risieda nello stacco (kire 切れ), ossia in quella cesura semantica e/o ritmico-grammaticale che divide l’opera in due parti distinte, eppure intimamente connesse sviluppando, al contempo, una risposta di ammirazione (eitan 詠嘆) ed un riverbero di suggestioni e sentimenti (yoin 余韻) decisamente importante.
Negli ultimi tempi mi chiedono spesso se nello haiku sia possibile inserire figure retoriche come la metafora, l’iperbole e via dicendo. La mia risposta è sempre la stessa, e cioè che il poeta deve innanzitutto saper impostare correttamente la giustapposizione (toriawase 取り合わせ) tra immagini, giustapposizione che, se efficace, permette di evocare suggestioni molto ampie e complesse di quelle che verrebbero rese possibili tramite ricorso ad altri artifici espressivi.
Quale risonanza ha avuto la poesia haiku in Occidente?
A seguito dell’apertura del Giappone all’Occidente, anche lo haiku ha conosciuto una significativa diffusione al di là dei confini nazionali.
La storia di questo genere poetico in Italia è, in verità, alquanto recente, diretta conseguenza di una produzione letteraria Otto-novecentesca incentrata, all’inizio, quasi prevalentemente sulla narrativa e sulla poesia breve tanka, grazie soprattutto alle più importanti riviste dell’epoca, come L’Oriente, L’Eco della cultura, La Diana e Sakurà.
Non dimentichiamo poi le Note di Samisen di Mario Chini, edite nel 1904, tra le primissime pubblicazioni che portarono traduzioni (pur non fedelissime, anzi spesso pesantemente adulterate) di componimenti in forma di haiku all’attenzione del grande pubblico.
Di fatto, tra gli autori italiani che sono stati in vario modo influenzati dal contatto con la poesia breve giapponese, ricordiamo, Andrea Zanzotto (1921-2011) con i suoi “pseudo-haiku”, Edoardo Sanguineti (1930-2010), Margherita Guidacci (1921-1992), Luciano Erba (1922-2010) e Vivian Lamarque (1946-presente) mentre per altri poeti, pur stilisticamente vicini al valore del frammento (penso, tra tutti, a Giuseppe Ungaretti e Salvatore Quasimodo) è comunque difficile parlare di “influenza da haiku” stricto sensu.
Ma, come detto, l’influsso della poesia breve giapponese ha colpito un po’ tutto l’Occidente: in Francia, a partire da poeti come Jules Renard (1864-1910) Paul-Louis Couchoud (1879-1959) sino a ricomprendere nomi come Guillaume Apollinaire (1880-1918) e Paul Claudel (1868-1955); in America, con una maturazione che, secondo William J. Higginson (1938-2008) ha avuto ufficialmente inizio a partire dagli Anni Cinquanta, con gli imponenti lavori divulgativi di Reginald Horace Blyth (1898-1964) e Kenneth Yasuda (1914-2002) e figure del calibro di Ezra Pound (1885-1972), Jack Kerouac (1922-1969), giungendo al fatidico 1968, anno in cui Harold G. Henderson (1889-1974) e Leroy Kanterman (1923-2006) fondarono la Haiku Society of America (HSA) con lo scopo di «promuovere l’apprezzamento […] dello haiku in lingua inglese»; e poi ancora, Jorge Luis Borges (1899-1986), Allen Ginsberg (1926-1997), Rainer Maria Rilke (1875-1926).
A partire dalla seconda metà del Novecento sono dunque sorte numerose associazioni il cui scopo è quello di favorire lo studio e la conoscenza della poesia haiku nel proprio Paese. In Italia, dopo l’Associazione Italiana Amici dell’Haiku (Roma, 1985), si sono imposte in tal senso Cascina Macondo (Riva presso Chieri, 1993) e l’Associazione Italiana Haiku (Pordenone, 2012).
Oggi lo haiku, grazie anche all’avvento di internet e dei social network, sta conoscendo un periodo di scambio ed espansione davvero notevole, con il proliferare di numerosi Gruppi su Facebook, forum di discussione e, finanche, riviste digitali (e-zine). Il rovescio della medaglia è tuttavia dato dal fatto che la storia e le regole compositive di questo genere poetico vengono recuperate, il più delle volte, da Wikipedia o da qualche oscuro post amatoriale, senza verificarne adeguatamente fonte ed attendibilità e portando, quindi, concetti spesso inesatti o addirittura di fantasia all’interno di queste comunità virtuali, contribuendo ad alimentare una conoscenza alquanto approssimativa dello haiku.
Come si può studiare il componimento haiku? Ci sono delle scuole in Italia?
Si tratta di genere poetico solo apparentemente semplice; la verità è che non basta comprimere il testo in diciassette sillabe ed inserirvi un riferimento stagionale per creare uno haiku. Occorre conoscerne le origini storiche, le varie Scuole che si sono succedute nei secoli, le direttrici estetiche che ne hanno accompagnato lo sviluppo, insomma studiare. Studiare testi non solo in italiano (purtroppo il nostro Paese è ancora acerbo sotto questo punto di vista), ma anche in inglese e, ovviamente – nei limiti delle proprie competenze linguistiche – in giapponese.
Alcuni ottimi studiosi e ricercatori nostrani, come ad esempio Matteo Contrini, Lorenzo Marinucci e Diego Martina, stanno portando per fortuna anche in Italia opere fondamentali; tra tutte, penso al “recente” Bashōzodan (‘Scritti vari su Bashō’) di Masaoka Shiki, giunto sugli scaffali delle librerie italiane a luglio 2017 e curato proprio dal Marinucci.
Attualmente io stesso sto lavorando a una raccolta di opere di poeti gravitanti intorno al Gruppo Hototogisuホトトギス (‘Cuculo’), per permettere al lettore italiano di fruire di scritti fondamentali per la storia dello haiku ma ancora totalmente sconosciuti, in quanto non tradotti o decontestualizzati.
Raccomando dunque a chi si avvicina a questo genere poetico di leggere tanto. Leggere gli haiku dei grandi Maestri del passato (ivi compresi i “classici” Bashō, Buson, Issa e Shiki), leggere gli haiku prodotti in Italia da altri autori e leggere almeno una piccola parte della vastissima produzione internazionale per comprendere non solo i caratteri formali (di per sé alquanto semplici da memorizzare), quanto soprattutto lo spirito che sta alla base di questa poesia, il suo legame profondo e sfaccettato con la realtà circostante e con la dimensione presente del vivere.
I vari Gruppi “social” possono essere un utile luogo (virtuale) di confronto e discussione, ma posto, come già detto, che ciascuna community tende ad adottare regole proprie e spesso arbitrarie, raccomando sempre di non appoggiarsi passivamente ad essi, quanto piuttosto di ragionare con la propria testa e, soprattutto, di continuare ad approfondire per conto proprio, restando slegati quanto più possibile, a livello preconcetto, da ideologie settarie.
In Italia esistono attualmente diversi “poli” dediti allo studio e alla divulgazione dello haiku, come l’Associazione Cascina Macondo in provincia di Torino, che promuove un concorso internazionale di haiku a cadenza annuale e diverse altre iniziative anche conviviali, o il Gruppo di studio sullo haiku. A Pordenone, dal 2012, è presente l’Associazione Italiana Haiku (AIH) – attualmente in fase di ripartenza dopo un periodo di stasi – cui è peraltro legata la Scuola Yomichi (Yomichi gakuen 夜道学園), ossia un centro di studi sulla poesia giapponese il cui scopo è quello di rimarcare la profonda attualità di questo genere poetico e le sue potenzialità espressive in relazione al periodo storico in cui viviamo.
All’interno del mio sito (lucacenisi.net) ho raccolto una serie di materiali ed approfondimenti che possono essere utili sia al neofita sia a chi già conosce lo haiku, compresa una guida, Guadando il fiume: per uno studio coerente ed unitario della poesia haiku, il cui scopo è proprio quello di indirizzare chi fosse interessato a forme più attente di ricerca.
Quali sono le differenze che una lingua e una grammatica diversa come quella italiana rispetto alla nativa giapponese possono creare difficoltà per la poesia haiku?
Questo è un tema molto delicato e a me caro. Ne ho parlato diffusamente in un articolo pubblicato proprio sul mio sito (intitolato Lo haiku in Italia) circa sei mesi fa.
Di fatto, partivo da una domanda: è davvero possibile parlare di “haiku italiani”? A mio avviso la risposta è affermativa, ma richiede le dovute precisazioni. Innanzitutto, occorre tenere ben presenti le differenze linguistiche e grammaticali esistenti tra giapponese ed italiano, tra cui il carattere convenzionale della nostra lingua rispetto alla rappresentazione diretta dell’oggetto nella scrittura ideogrammatica, nonché la fisiologica discrezionalità (e, dunque, imprecisione) nella trasposizione dei kireji 切れ字 (i ‘caratteri che tagliano’) e la diversa ampiezza fonetica che sussiste tra sillaba italiana e on 音 (la prima, legata ad una forma accentuativa e la seconda ad un sistema fonetico parasillabico non accentato). Occorre poi ricordare che alcuni aspetti che crediamo appartenere alla tradizione derivano invece da convenzioni stilistiche occidentali, come la divisione in tre versi distinti (anziché tre momenti concatenati in un unico rigo di composizione verticale) o il c.d. “piccolo kigo”, un espediente poetico teorizzato da Cascina Macondo agli inizi del 2000 per salvare opere prive di riferimento stagionale, ma che non trova alcun riscontro nella letteratura giapponese.
Di fatto, per comporre uno haiku in senso stretto dovremmo affidarci alla lingua che ne ha dato i natali, e dunque al giapponese, sfruttando quella sfericità semantica e profondità espressiva che la caratterizzano.
Lo haiku italiano si presenta, a conti fatti, come “adattamento” di una forma poetica straniera, importata in un altro sistema culturale e linguistico; tuttavia, diversi caratteri essenziali di questa forma restano anche nella nostra lingua: il legame con il contesto naturalistico, la brevità, la giustapposizione tra immagini e la centralità di alcuni valori estetici – come, ad esempio, il karumi 軽み (‘leggerezza’), il sabi 寂 (‘la sobrietà’ di ciò che è patinato dal tempo) o lo yūgen 幽玄 (‘profondità e mistero’) – che, sebbene legati intimamente, ab origine, a dinamiche e scenari nipponici, possiedono di per sé un’universalità tale da renderli perfettamente intellegibili (e riproducibili) anche al poeta italiano.
Sebbene cambino il codice linguistico e quello socio-culturale, dunque, restano a mio avviso valide le discriminanti di fondo che, se adeguatamente comprese dallo haijin occidentale, possono condurre pacificamente all’affermazione dell’esistenza di uno schema universale e, quindi, adattabile a sistemi tra loro diversi.
Come districarsi nei saggi dedicati a questa forma d’arte e nelle varie raccolte?
Come per la questione relativa ai Gruppi su Facebook ed altri social network, anche per i libri l’avvento di internet si è trasformato in un’arma a doppio taglio: ad una maggiore circolazione del sapere si è contrapposta un’iper-produzione di contenuti spesso frutto di ricerche superficiali o rimaneggiamenti posticci. L’editoria a pagamento, la possibilità di produrre e-book a costo zero e il print on demand hanno infine reso ancor più difficile per il lettore reperire materiale di qualità. Se, infatti, all’interno del Kindle Store si digita il termine di ricerca “haiku”, compaiono oltre 5.500 risultati, molti dei quali puntano a lavori i cui contenuti sono quantomeno discutibili, mentre su IBS od altre librerie online è possibile acquistare una moltitudine di raccolte che poco o nulla hanno a che fare con lo haiku, limitandosi, il più delle volte, a proporre componimenti che seguono lo schema 5-7-5.
Tra i saggi in lingua italiana che personalmente raccomando di reperire e/o consultare ci sono invece, senz’altro: La letteratura giapponese di Marcello Muccioli (Sansoni, 1969), la Letteratura giapponese di Shūichi Katō (Marsilio, 2000), l’Introduzione alla storia della poesia giapponese di Pierantonio Zanotti(Marsilio, 2012), Sul vento che scorre di Kuki Shūzō (Il Nuovo Melangolo, 2012) e Sull’estetica giapponesedi Donald Richie (Lindau, 2017).
Di recente, io stesso ho pubblicato, per Castelvecchi Editore, un saggio (La luna e il cancello) che si propone di fornire una panoramica quanto più completa ed esaustiva sullo haiku, mettendo insieme gli ultimi anni di ricerca.
Quanto alle raccolte, consiglio Haiku, a cura di Miura Yumie (Dalla Costa Editore, 2012), Il grande libro degli haiku, curato da Irene Starace per Castelvecchi e riedito nel 2018, e le varie pubblicazioni de La Vita Felice per la collana Labirinti, riconoscibili dall’inconfondibile copertina gialla. È poi sempre in ristampa il classico Haiku. Il fiore della poesia giapponese da Basho all’Ottocento curato da Elena Dal Pra per Mondadori, che ha tuttavia il difetto, a parer mio, di non presentare la versione originale deli singoli componimenti, ma solo la traslitterazione in rōmaji.
A chi invece conosce abbastanza bene l’inglese si apre un mondo. Tra i principali saggi da reperire consiglio: The Haiku Form di Joan Giroux (Tuttle Publishing, 1974), The Haiku Handbook di William J. Higginson (McGraw-Hill, 1985), The Japanese Haiku di Kenneth Yasuda (Tuttle Publishing, 2001), Poems of Consciousness di Richard Gilbert (Red Moon Press, 2008), The Chrysanthemum and the Scissors di Jon LaCure (2017), On Haiku di Hiroaki Sato (New Directions, 2018), The Way of Haiku di Naomi Beth Wakan (Shanti Arts, 2019) e l’imponente ma quasi introvabile opera in quattro volumi intitolata semplicemente Haiku, di Reginald Horace Blyth (Hokuseido Press, 1949-1952).
La bibliografia in lingua giapponese, infine, è talmente ampia da non poter essere menzionata nemmeno in parte senza far torto ad altri lavori. Ritengo comunque che per il neofita occidentale che si avvicina per la prima volta allo haiku, le indicazioni sopra citate possono rappresentare un solido punto di partenza, da sviluppare nel tempo con approfondimenti e scritti in lingua originale o, comunque, correttamente tradotti.
Tu potessi conoscere un grande compositore di haiku del passato chi sceglieresti, perché e quale componimento?
A questa domanda è difficile dare una risposta, dato che amo diversi autori del passato più o meno recente. Tra tutti, ad esempio, mi ha attratto fin da subito la figura di Fukuda Chiyo-ni (1703-1775), una delle voci femminili più significative di sempre nel panorama haiku giapponese, vissuta in epoca Edo nello stesso periodo di Yosa Buson (1716-1784), autore dal linguaggio poetico immaginifico ed elegante. Vicina alla Scuola Shōmon di Bashō, divenne monaca buddhista all’età di 52 anni; la sua poetica è sostanzialmente fondata su un perfetto equilibrio tra vicende umane e contesto naturalistico circostante, legando le due dimensioni alla luce di un fueki ryūko 不易流行 (l’‘eterno e contingente’) attento e profondamente suggestivo:
釣竿の糸に触るや夏の月
tsurizao no ito ni sawaru ya natsu no tsuki
accarezza il filo
della canna da pesca:
luna d’estate
Di Matsuo Bashō (1644-1694), ovviamente, ammiro il lavoro di affinamento poetico che ha portato ad un cambiamento epocale dello hokku 発句 (la stanza d’esordio della ‘poesia a catena’ renga 連歌, da cui lo haiku ha origine), affrancandolo definitivamente dalle proprie radici comico-giocose, incanalandolo piuttosto in quel ‘cammino di eleganza’ (fūga no michi 風雅の道) che avrebbe influenzato tutta la produzione poetica successiva.
Tuttavia, un’ancor più forte attrattiva ha prodotto in me Masaoka Shiki (1867-1902), figura altrettanto significativa nell’evoluzione dello haiku grazie all’introduzione (rectius, all’adattamento) del concetto di shasei 写生 (‘spaccati di vita’) – ossia di una visione realista e non adulterata della realtà circostante – all’interno del processo compositivo, oltre che alla fondazione della rivista Hototogisu, che avrebbe raccolto intorno a sé altre figure di grandissimo spessore e rilievo. Di lui amo in particolare il seguente componimento:
行く我にとゞまる汝に秋二つ
yuku ware ni todomaru nare ni aki futatsu
nel mio andare,
nel tuo restare:
due autunni
Tra le altre poetiche che mi sono rimaste particolarmente impresse segnalo: Uejima Onitsura (1661-1738), Murakami Kijō (1865-1938), Ryūnosuke Akutagawa (1892-1927), Kuribayashi Issekirō (1894-1961), Katō Shūson (1905-1993) e Nobuko Katsura (1914-2004), ma la lista potrebbe proseguire ancora, soprattutto sul versante ‘moderno’ o gendai 現代.
海わたる魂ひとつ夜の秋
umi wataru tamashii hitotsu yoru no aki
uno spirito
attraversa il mare:
notte d’autunno
Nobuko Katsura
Intervista di: Luca Ramacciotti