Lo scrittore toscano Leonardo Gori torna in libreria con un nuovo avvincente romanzo La nave dei vinti usciti per Tea.
Lo abbiamo incontrato e con lui approfondito alcuni importanti temi contenuti nel libro.
Un’Italia dolente quella che descrivi in questo romanzo fermata in un particolatre momento storico, un’Italia che per molti aspetti assomiglia a quella che stiamo vivendo. Quanto siamo cambiati?
La Storia è beffarda: si ripete in modo ossessivo, ma sempre apparentemente diverso, cosa che ci disorienta. L’unica certezza è che non impariamo nulla dai tragici errori del passato. Quando ero bambino, negli anni Sessanta, pensavo che orrori come i campi di sterminio e i bombardamenti a tappeto delle città inermi non si sarebbero mai ripetuti: e come sarebbe stato possibile non aver imparato la lezione, dopo quello che il mondo aveva subito? Invece, la guerra, le stragi degli innocenti, il tormento dei profughi in fuga dalla guerra sono da decenni i nostri compagni quotidiani. L’Italia e l’Europa del 1939, in cui si aggira il dolente Bruno Arcieri, corre allegramente verso l’abisso. Arriva una nave piena di profughi disperati, che restano confinati a bordo. Tutto vero, perché il racconto è ispirato a un avvenimento autentico. Mentre scrivevo, mi stupivo per primo di quanto la situazione fosse allo stesso tempo diversa da quella di oggi e maledettamente attuale: una guerra civile, gente su una nave che nessuno vuole, e la minaccia di un conflitto ancora più vasto… Egoismi, squadristi che imperversano, follie integraliste… E l’unico barlume di luce il lavoro sotterraneo di pochi spiriti giusti che lavorano a rischio delle proprie vite.
E Bruno Arcieri quanto è cambiato nel corso dei tuoi romanzi?
Ah, bè, tantissimo! Anzi, si può dire che la collana delle sue avventure è proprio il “romanzo di formazione” del mio buon capitano (e poi colonnello) Arcieri. Questo romanzo in particolare, “La nave dei vinti”, è cruciale: è qui che Bruno Arcieri comprende che non può più limitarsi a fare il proprio dovere con rettitudine, mantenendo la coscienza pulita. Deve schierarsi, sporcarsi le mani, ma soprattutto entrare in comunicazione profonda con chi gli sta intorno, amici e forse, soprattutto, nemici. E’ la scoperta dell’emozione, dell’empatia. I profughi della nave ancorata al porto di Genova gli sbattono in faccia le responsabilità che lui nemmeno si rendeva conto di avere, e finalmente sceglie da quale parte di un mondo impazzito dovrà combattere. Ti confesso che quando scrissi il primo romanzo della serie, “Nero di maggio”, non avrei mai sospettato che il mio Bruno avrebbe fatto un percorso di questo genere.
Quanto la visine della vita di Arcieri assomiglia alla tua?
I personaggi dei romanzi, disse tanti anni fa Giorgio Bassani in un’intervista, sono il frutto della scomposizione e ricomposizione, come tessere di un mosaico, di persone reali, letterarie, intime, di ricordi e di ideali. Ovviamente in Bruno Arcieri c’è un po’ di me, e probabilmente di mio padre, ma anche di altre persone che mi hanno suscitato emozioni, con cui ho stabilito un contatto. Detto questo, mi stupisco molto spesso di quanto Bruno Arcieri sia più tollerante, più progressista, più positivo di me. Ho tanto da imparare da lui: sia dalla sua incarnazione “giovane”, negli anni Trenta e Quaranta, sia da quella “anziana”, nei tardi anni Sessanta. Io non sono affatto così buono e… progressista. Ma questo non ha importanza, ti pare?
La tua coninua e scrupolosa ricerca storica all’interno delle pieghe del passato ha regalato negli anni ai lettori romanzi appassionanti e fedeli e a te?
La ricerca scrupolosa, come dici tu, e appassionata, aggiungo io, mi serve soprattutto per credere davvero di essere a fianco di Arcieri, di guardare attraverso i suoi occhi il mondo in cui si muove, che siano gli anni Trenta e Quaranta o i Sessanta/Settanta. E’ dunque una vera e propria necessità, oltre che un piacere, perché fare il topo di biblioteca mi piace molto. Inoltre, la documentazione come la intendo io mi ha regalato una visione del mondo e della Storia che va al di là di quanto i libri possono offrire: se si ricerca il sentire comune di un’epoca, si impara molto di più dalla lettura dei quotidiani, dei rotocalchi, dei libri popolari, dei fumetti… Le lettere al direttore delle lettrici de “Le grandi firme”, per sempio, sono una miniera. E poi si comprende davvero un’epoca e un modo di pensare comune (quello del “popolo”) dalle canzonette, come diceva addirittura Gramsci. E’ per questo che ne cito tante, nelle mie storie. E’ una forma autentica di antropologia culturale.
Quando hai iniziato a scrivere di Arcieri era un giovane capitano, immaginiavi come sarebbe diventato?
Ho già risposto: assolutamente no. Figurati che nella prima stesura di “Nero di maggio”, scritto oltre vent’anni fa e ripubblicato l’anno scorso, lui non c’era nemmeno! Lo introdussi perché mi serviva un personaggio con certe caratteristiche di sensibilità culturale, in grado di reggere i dialoghi col Gerarca Senza Nome, che è il vero protagonista della storia. Questa nascita casuale, strumentale del personaggio, si è rivelata utilissima, perché il personaggio di Arcieri mi si è rivelato romanzo dopo romanzo, è cresciuto, è cambiato, come il protagonista di un lunghissimo romanzo di formazione. Quindi bene, perché ha sorpreso me, prima dei lettori, e questo è molto importante, per renderlo vivo.
Le avventure del colonnello Arcieri sono edite da TEA libri lhttps://www.facebook.com/leonardo.gori.7 http://www.leonardogori.com
Intervista di: Elena Torre