Partiamo dall’incipit: i tuoi studi.
Laurea in Biotecnologie, laurea in Biologia Molecolare e Cellulare, due tesi, la prima sperimentale in neuroscienze e la seconda clinica, in ambito psichiatrico; compimento medio di pianoforte e composizione (in corso). Successivamente ho conseguito l’abilitazione alla professione di Biologo per esercitare anche da nutrizionista. Per me è stato molto importante aver vinto il concorso indetto dall’Università degli studi di Siena per mettere su e applicare un progetto di musicoterapia (che ho poi definito ‘Approccio Integrato’) in reparto Psichiatria (Azienda Ospedaliera Santa Maria Le Scotte) sotto la responsabilità del Prof. Andrea Fagiolini. Questo progetto è cominciato nel 2017 e mi ha permesso di fare esperienza diretta lavorando come musicoterapeuta.
Come si possono conciliare due mondi così differenti come questi delle tue specializzazioni?
Il punto essenziale è studiare e comprendere dapprima le correlazioni che sussistono tra cervello e musica. L’interesse per la musicoterapia (quest’ultima proiezione diretta di tutto ciò che riguarda i miei studi e la mia esperienza, dal momento che abbraccia le neuroscienze, la psicologia, e la psichiatria, il problem solving, gli studi sullo stress da lavoro correlato, oltre alle necessarie e indispensabili nozioni prettamente musicali) e la sua applicazione trovano ragione nei processi cerebrali, quindi in tutto ciò che accade a livello neurotrasmettitoriale e non solo, con particolare riferimento alla plasticità neuronale e agli effetti psicagogici (come li definisco io) indotti dall’ascolto o dalla pratica della musica, quest’ultimi positivi o negativi, che possono a loro volta, semplificando, suscitare emozioni e/o reazioni positive o negative. Ben si comprende l’importanza del sistema limbico. In ambito puramente artistico, la musicoterapia è in grado di condurre alla risoluzione o alla marcata attenuazione di ‘problemi’ come possono essere lo ‘spingere troppo’ o l’incapacità di fare suoni piani, forti, in crescendo, in decrescendo, comprese le messe di voci; è possibile lavorare sulla scarsa propriocezione, sul sovraccarico emozionale e corporeo, e su molti altri aspetti, spesso puramente psicologici, conseguenza di una mancata o scarsa consapevolezza (nel senso più ampio del termine) sia mentale che corporea.
E come si raggiunge la consapevolezza corporea?
Si raggiunge come dico sempre attraverso una mente artistica. La mente è ingannatrice. Di per sé la mente tende ad affermare ‘io sono questo perché ho fatto questo’ oppure ‘io sono questo perché farò questo’. Questo processo di identificazione mentale è disfunzionale. La mente artistica invece è trasversale, eclettica, ti permette di vedere tutto a 360°, di focalizzare l’attenzione su ciò che è di interesse in un particolare momento, sull’obiettivo (senza tuttavia assumere un atteggiamento giudicante prima di tutto verso se stessi) e sul corpo. Tuttavia la mente artistica deve essere sviluppata e può essere fatto attraverso il corpo (dal momento che si influenzano a vicenda), e attraverso nozioni ed esperienze che esulano dalla sola scrittura musicale. Per cui, facendo un esempio pratico, se una persona va incontro a tachicardia e sul pianoforte viene prodotto un accordo in una tonalità maggiore, a 60 battiti al minuto, solitamente il battito cardiaco rallenta. Questo è uno dei numerosi modi esemplari in cui si può intervenire con il suono.
Il tuo “caso” più interessante.
In realtà mi viene in mente una situazione che ha visto coinvolte due persone: un ragazzo schizofrenico, sui 40 anni, ed una ragazza anoressica di circa 20 anni. La musica, spesso e volentieri, mette in moto processi catartici o recuperatori: il ragazzo è andato, ad esempio, a ripescare ricordi associati all’insegnamento del pianoforte in giovane età. Aveva iniziato a studiare pianoforte con un’insegnante cieca per la quale aveva molta importanza il ritmo. E lui aveva associato olfatto, vista ed udito a tre ritmi completamente differenti, quali quello del respiro, del cuore, e del suono associato al ritmo come lo intendiamo in musica (durata delle note). Ricordo con piacere come abbia re-imparato a fare un’ottava di scala sia di Re maggiore, che di Do maggiore e Sol maggiore e la ragazza (prima menzionata) presente negli stessi set di musicoterapia (aveva anch’essa studiato pianoforte) lo incentivò a fare le tre ottave a mani unite, con risultato positivo. Quindi emerge una straordinaria capacità di collaborazione incentivante data dal fatto che innanzi alla musica siamo tutti uguali: essa a mio avviso rappresenta una sorta di bolla, un fil rouge, che ci unisce tutti.
Quando invece del singolo hai un gruppo di persone come stabilisci la linea d’azione?
Sempre al momento. Bisogna essere eclettici, avere molte conoscenze dalla tua e ascolatare ciò che ti dice al momento la persona in questione; osservare quello che accade nel gruppo, come lo stesso reagisce. Avere molta attenzione, associata ad altrettanta empatia, su ciò che succede nel tempo, permette di prevedere cosa va bene e cosa va male. Si deve essere come delle ‘canne pensanti’ (e mi fa il gesto di canne mosse dal vento).
Un cantante lirico, in generale, senza andare sulle patologie come descritte prima, ma che deve pensare al canto corretto, alla recitazione, all’impatto emotivo dal pubblico può trarre beneficio dalle tue specializzazioni?
Con cognizione di causa dico di sì, perché mi sono reso conto, soprattutto da compositore, lavorando coi cantanti, che spesso e volentieri gli stessi si fossilizzano sulle note, sulle parole e sulla tecnica, senza tuttavia permettere alle emozioni di venire fuori. La tecnica può essere perfetta, tutto molto bello, ma i cantanti possono non comunicare niente o poco. Per cui al fine di una produzione la performance è sicuramente efficace, ma scarna di carica emotiva. Si cerca di conseguenza un equilibrio, un compromesso. La tecnica a volte può fare degli scherzi: magari il laringe si alza, e può succedere per tantissimi motivi, il sostegno può venire a mancare, per cui è necessario comunicare in un modo collaterale. Alcune volte non puoi fare affidamento solo su un qualcosa che è parte personale, che non è chiaramente esterna come lo è un pianoforte che ha una tastiera pesa (per fare un esempio) e la mano ha modo di adattarsi nell’arco di cinque minuti. Se il tuo strumento in quel momento non risponde come vorresti devi essere all’altezza di comunicare col pubblico in altro modo. E lo fai mettendo in gioco le tue emozioni.
Ci vuoi illustrare le tue pubblicazioni?
Il primo libro si intitola “Approccio integrato” perché è un’integrazione non soltanto di ciò che accade a livello cerebrale, in risposta a uno stimolo sonoro, con coinvolgimento dell’udito, ma anche di ciò che accade nel cervello in risposta a uno stimolo sonoro in associazione a una stimolazione tattile, visiva e persino gustativa. Si lavora con i colori, i profumi, i sapori, e nel libro è tutto riportato nei dettagli. È a tutti gli effetti uno studio osservazionale. Il secondo libro è “Consapevolezza musico – appresa”, ed è invece un saggio dove ho unito ad elementi di psicologia la mia esperienza di musicista, con riferimento all’applicazione della musicoterapia in ambito artistico ed educativo.
Intervista e foto di: Luca Ramacciotti