È difficile recensire un film come The Happy Prince di e con Rupert Everett.
La difficoltà nasce dall’oggettivo pugno nello stomaco che si riceve per tutta la durata del film. Ci dobbiamo scordare l’Oscar Wilde sopra le righe, l’icona del motto sagace, il creatore di commedie geniali e conoscere l’uomo Oscar Wilde, quello che fu triturato e risputato fuori dal carcere e che sopravvisse grazie alla sua forte presenza di spirito.
Spesso ci scordiamo che Oscar Wilde era irlandese e non inglese e per la società inglese fu facile puntare il dito contro quella che all’epoca era una star famosissima che dileggiava e sottolineava i vizi, e le poche virtù, della società a lui contemporanea nelle sue opere. Un’ uomo la cui colpa era di aver rivelato pubblicamente la sua omosessualità (nel 1967 è stata depenalizzata l’omosessualità in Inghilterra e nel 2017 sono stati riabilitati omosessuali condannati come lo stesso Wilde).
Un uomo altamente snob che nella relazione con Alfred Douglas (Bosie) trovò piena gratificazione. L’intelligenza, la sagacia dell’uomo Wilde son ben presenti nel film come il calvario che affrontò nel carcere, l’umiliazione pubblica l’esilio. Wilde inizia così un processo discendente nel suo inferno personale tra droghe e povertà quasi a volersi punire, dare ragione a quelle persone che lo avevano condannato per dissolutezza e messo al bando.
Imperterrito si rifugia nella relazione con Alfred Douglas pur sapendola distruttiva negando quella che sarebbe potuta essere la sua vera, grande storia d’amore con Robert Ross che gli stette vicino fino alla fine dolorosa, terribile, ma riconciliandosi con Dio. E questo è un altro tema importante del film la spiritualità di Wilde che compare in molte sue opere (per non parlare del De Profundis) e che caratterizzò la sua vita e spesso nel film ci sono parallelismi tra il calvario di Cristo e la parabola di Wilde (dagli sputi dei dileggiatori ai discepoli che si addormentano durante la veglia a, ovviamente, la prigionia). Si mostra un’Italia dove la misoginia dava più libertà agli uomini, negandone evidenze (tanto che molti inglesi in quel periodo venivano in Italia) ed una Parigi livida e fredda.
Per stessa ammissione di Everett il suo lavoro è un omaggio a Visconti, in particolare al film Morte a Venezia dove ha tratto ispirazione alla figura di Tadzio per quella di Douglas, al suo modo di fare regia e innumerevoli sono le citazioni pittoriche a cui è ricorso per dare la giusta idea dell’ambientazione non avendo potuto fare riprese nei veri luoghi degli eventi.
La figura di Wilde da questo film ne esce non illividita, ma è l’esempio di come una società (e in conferenza stampa Everett ha fatto riferimenti sia alla sua propria vicenda personale sia a stati come la Russia dove ancora l’omosessualità è condannata o anche all’Italia dove ci sono partiti come la Lega che inneggiano all’omofobia) possa distruggere il cuore di una persona calpestandone anima e personalità, perseguitandolo senza sosta.
È innegabile che dietro a questo film ci sia un incredibile lavoro di studio sulle biografie e l’opera di Wilde soprattutto sulla meravigliosa fiaba del Principe Felice che da il titolo a questo capolavoro che ancora una volta, se ce ne fosse stato bisogno, dimostra l’umanità di Everett e il suo straordinario talento di attore.
Un attore imbolsito, trasformato per interpretare Wilde che lo rende con estrema purezza anche in quelle scene che sarebbero potute scadere nel volgare e che invece son tutte quante di un’eleganza sobria per quanto spietata.
Bellissimo anche il ritratto della moglie che, effettivamente fino all’ultimo, volle bene al marito tanto da mantenerlo con una piccola rendita.
Credo che sia un film che vada visto, mostrato nelle scuole perché non accada più abomini come quello a cui Wilde fu sottoposto.
Everett al suo esordio alla regia ha firmato un capolavoro dove accanto a lui ci sono attori straordinari come Colin Firth, Colin Morgan ed Emily Watson.
Articolo di: Luca Ramacciotti