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Da Gaza all’Ospedale del Cuore di Massa: la storia di Salwa e di PCRF -Italia

Da Gaza all’Ospedale del Cuore di Massa: la storia di Salwa e di PCRF-Italia

PCRF -Italia e la storia di Salwa. Salwa da grande vuole fare la showgirl. Non so dove abbia imparato questa parola, ma è uno dei pochi lemmi in inglese che padroneggia benissimo: showgirl. Siamo sedute fuori da un negozio di Kebab nel centro di Massa, a un paio chilometri dall’Ospedale del Cuore, meglio conosciuto con l’acronimo del suo vecchio nome, “OPA”, eccellenza nella cardiochirurgia pediatrica. Il suo vestitino a fiori rosa in tinta col capello ha lo scollo rotondo, attraversato perpendicolarmente dal lungo cerotto grigio che le scende sul corpo fino al centro della pancia. La cicatrice dell’intervento è fresca e non deve infettarsi. Probabilmente le duole, ma ciò non le impedisce di avventarsi sulla piadina traboccante verdure, humus e falafel. La madre, Nisim, le dice di mangiare piano, shuey shuey, ma poi si dedica al suo panino con lo stesso compiacimento. 

Grafica Divina

Dalla prima volta che l’ho incontrata – a inizio luglio 2023, all’ingresso del reparto dedicato ai bambini cardiopatici dell’OPA – Nisim non fa che dirmi che a lei e sua figlia manca il cibo di casa. Qui in Italia non condite l’insalata, dice. Foglie verdi, magari usate per poggiarci sopra le cose, fare “un letto”. Dove sono i cetrioli, la cipolla, le salse? E i dolci al miele? Sorrido, smanacco, lei mima il sale, io l’olio. Parliamo un po’ a gesti, un po’ con l’aiuto del traduttore automatico. Sono una volontaria senza competenze mediche, sono qui solo per farle un po’ di compagnia, ma la compagnia, dice, è tutto ciò che le serve adesso, altrimenti la testa le scoppia di pensieri. Perciò passiamo dal cibo alla situazione di Salwa, che di lì a un paio di giorni deve subire il terzo intervento a cuore aperto della sua vita, e la sua vita è iniziata solo nove anni e mezzo fa. Così poco, dice Nisim. Troppo poco. Scuoto la testa. Le dico che Salwa ha un nome magico: in italiano suona come salva, qualcuno che ce la farà. Mi abbraccia, non piange più. Dice non sai cosa darei per mangiare un Maqlouba adesso, ma quando me ne vado ha di nuovo la testa tra le spalle e una paura che né io né i medici possiamo lenire.

In questo pomeriggio di metà luglio, però, tutto questo è alle spalle. Sedute ai tavolini di plastica fuori dal negozio, Nisim mangia finalmente un cibo familiare con gli occhi strizzati nel sole, sorseggia una bibita, guarda sua figlia che canticchia a bassa voce con la testa di riccioli neri appoggiata alla mano e quando glielo chiedo mi dice che vuol fare la showgirl. Non a Gaza, dice Nisim. A Gaza non si può. Salwa non risponde, si rimette a cantare. Le dico che in effetti lei è già una showgirl di Gaza, la più bella che abbia mai visto. Lei fa un inchino e guarda la madre con aria di sfida. Nisim ride, dice va bene. Al collo, intorno al velo, scintilla il ciondolo dov’è inciso in arabo il nome di suo marito, Mohamed. Più tardi riuscirò a conoscerlo durante una videochiamata con poca banda in cui le sorelline minori di Salwa cercano di occupare tutta l’inquadratura, sovrapponendosi al padre. Hanno tre e sei anni, vogliono sapere quando rivedranno la loro mamma. È difficile spiegare loro perché Salwa non possa ricevere le cure di cui ha bisogno in Palestina, a casa loro, oppure quanto ci sia voluto per ottenere il permesso di far uscire Salwa da Gaza e garantirle un’operazione salvavita. Nisim per il momento si limita a far passare un solo messaggio: il loro viaggio in Italia è una fortuna, presto saranno di ritorno. Salwa saluta le sue sorelle, dice di stare benissimo. Quando la telefonata finisce, però, ha il viso stanco, gli strascichi dell’operazione alla fine la raggiungono. Rientriamo all’Opa, ci salutiamo sulla soglia. Non ho foto di quel pomeriggio, eravamo troppo felici per occuparcene.

Gli operatori del team italiano di cardiochirurgia pediatrica di PCRF (Palestine Children’s Relief Fund), la principale organizzazione umanitaria impegnata in Palestina per garantire il diritto alla salute dei bambini malati e feriti nel corso degli attacchi militari, hanno incontrato Salwa per la prima volta nel dicembre 2022 durante una delle missioni del team italiano dell’Ospedale del Cuore di Massa, diretto dalla Fondazione Toscana Gabriele Monasterio. In quell’occasione, una delle volontarie, la cardiologa pediatrica Nadia Assanta, ha visitato Salwa, decretando la gravità delle sue condizioni di salute e la necessità di uscire da Gaza per poter fare ulteriori accertamenti e procedere con un intervento non realizzabili a livello locale. 

Uscire da Gaza. Da italiani, ci riesce difficile immaginare di non poter lasciare il nostro paese per ricevere un intervento chirurgico; anzi, di solito è il servizio sanitario nazionale stesso a contattare le strutture più idonee a cui inviare i pazienti italiani laddove le cure non siano disponibili sul territorio. In generale, ci riesce difficile immaginare di non poter circolare liberamente, prendere l’auto e andare dove ci va, salire su un aereo, comprare degli antibiotici o aprire il rubinetto e riempire una bottiglia d’acqua. 

Nella Striscia, invece, è la normalità. Nonostante il ritiro formale delle truppe israeliane nel 2005, Israele mantiene il controllo militare dello spazio aereo, delle acque territoriali e della frontiera terrestre tra la Striscia e Israele. In sostanza, per bere un bicchiere d’acqua potabile, così come per accedere all’assistenza sanitaria fuori dalla Striscia (ma anche per ottenere farmaci essenziali come gli antitumorali, sottoposti al controllo di frontiera), bisogna chiedere il permesso a Israele. E Israele naturalmente non sempre lo dà, e se lo dà lo fa con i suoi tempi, che in alcuni casi sono incompatibili con la vita. Come denunciato in questo articolo di Save The Children, la recente chiusura dei valichi di Erez e Kerem Shalom, controllati da Israele, ha impedito a 292 pazienti di accedere a cure mediche essenziali in ospedali al di fuori di Gaza, tra cui 15 pazienti che necessitano di cure urgenti e potenzialmente salvavita. Nel 2022, almeno tre bambini sono morti a causa della negazione del permesso di ricevere cure in ospedali al di fuori della Striscia. In sostanza, ciò significa che le bambine e i bambini letteralmente muoiono nell’attesa del permesso di uscire, restando intrappolati in un territorio gravemente sovrappopolato di 40 chilometri per 10, in cui, secondo Oxfam, il 60% delle famiglie vive al di sotto della soglia di povertà.

Ecco perché Nisim dice alle sue bambine che lei e Salwa sono fortunate. Non solo Salwa, da quando è nata, è riuscita a lasciare Gaza per ben tre volte per essere operata al cuore, ma lei, sua madre, ha potuto accompagnarla. Ai genitori, infatti, il più delle volte non è consentito accompagnare i figli che lasciano la Striscia per ricevere cure mediche. Possono andare al massimo le nonne, qualche vecchia zia, individui considerati “innocui” ai fini dell’antiterrorismo israeliano. La normalità, allora, è anche dover accettare di mandare i propri bambini da soli nel viaggio più spaventoso della loro vita, perché è il viaggio stesso a garantirla, quella vita. Ci si strappa in due per sopravvivere.

Dal 2007, PCRF-Italia, “branca” italiana di PCRF, ha cercato con ogni mezzo di portare un po’ di pace in questa atipica normalità. Tra il 2007 e il 2019, data di fermo del Covid-19, sono state effettuate 42 missioni di cardiochirurgia pediatrica per un totale di 371 pazienti trattati. A partire dal 2017, si è aggiunta anche la cardiologia interventistica (con cinque missioni in soli due anni), per un totale complessivo di 47 missioni e 442 casi. Dopo la pandemia, le missioni sono immediatamente ripartite: 3 per la cardiochirurgia pediatrica, 1 per la cardiologia interventistica. A dare corpo e passione a questi progetti, volontarie e volontari provenienti da ogni parte d’Italia: oltre all’OPA di Massa, il Gaslini di Genova, il Brotzu di Cagliari, l’Azienda Ospedaliera di Padova, l’Università Federico II di Napoli, e questo solo per quanto riguarda il “cuore”. 

Non saremo noi a risolvere il conflitto pluridecennale tra Palestina e Israele, questo lo sappiamo bene. Ma sappiamo anche che Salwa è viva e questo è abbastanza per farci andare avanti con la nostra missione. È tornata a casa sua a giocare con le sue sorelle, in riva allo stesso mare che bagna le nostre coste e che però sa essere così diverso; ha finalmente messo le mani sul suo adorato maftoul, la fattah, i “dolci davvero dolci”, e sogna ancora di fare la showgirl. 

Questi numeri non sono solo numeri. Sono fiori, e anche i fiori hanno un peso. Bisogna farli crescere, ognuno come può: raccontandoli, informandosi sulle operazioni di PCRF o facendo una semplice donazione (tutte le informazioni sono reperibili qui). 

Per ogni cuore che continua a battere, la Palestina continua a esistere, e noi con lei.

Articolo di: Elena Panzera

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