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Se Dio non vale un quadro intervista a Liborio Palmeri

Se Dio non vale un quadro intervista a Liborio Palmieri. Liborio Palmeri è presbitero presso la diocesi di Trapani ed è l’uomo di fede che tutte le persone dovrebbero avere la fortuna di incontrare, come è accaduto a me. È un uomo dalla visione ampia dei concetti di religione e fede forse per la sua preparazione dovuta sia agli studi presso la Facoltà Teologica di Sicilia sia a quelli di Lettere classiche – arte contemporanea presso Università degli Studi di Palermo – Younipa, Liborio lo si potrebbe ascoltare per ore tanto sa affascinare con la sua preparazione, mai didattica o pesante come avviene in questo suo sorprendente scritto che non è solo un’acuta riflessione sulla fede nella società che viviamo, ma è soprattutto e fortemente un libro sull’arte per cui è consigliabile a tutti credenti o non. Si toccano temi di tradizione, di antropologia, di storia, di sociologia per comprendere un cammino artistico che ci riguarda più da vicino di quello che si potrebbe credere. Attenzione non va etichettato come un libro scritto da un rappresentante della Chiesa perché sarebbe un grave errore e un torto al lavoro compiuto da Liborio. Il libro “Se Dio non vale un quadro. Crisi dell’arte sacra, eclisse dell’immagine di Dio e persistenza del Sacro nello sviluppo della cultura visiva occidentale. Dal IV secolo d.C. al Novecento” è edito da Gangemi (illustrazioni di Marco Papa).

Se Dio non vale un quadro.  Quale è la genesi di questo tuo libro?

Questo libro nasce da un incontro, nella stessa persona, di tre esperienze normalmente separate e, per certi versi, distanti: quella del prete appassionato di antropologia religiosa, quella dello studioso d’arte, e quella del curatore di mostre d’arte contemporanea. Ad un certo punto, questa persona, cioè il sottoscritto, ha sentito il desiderio di mettere insieme le varie conoscenze per una presentazione trasversale, sincronica e diacronica, dei cambiamenti dell’arte posta in relazione con l’esperienza religiosa degli artisti, della committenza e del pubblico, a partire dal primo grande snodo della cultura artistica occidentale che è il Giudizio Universale di Michelangelo nella Cappella Sistina, nel XVI secolo. Il titolo nasce dalla constatazione che, ad un certo punto, l’arte a soggetto religioso non ha più coinvolto emotivamente gli artisti, ma soprattutto non ha allettato le loro tasche. Naturalmente la colpa non può essere stata solo degli artisti. E qui il libro, per quanto sia possibile, cerca di mantenere un’equidistanza nella comprensione dei processi storico artistici.

Grafica Divina
Se Dio non vale un quadro

Quanto l’arte sacra ha creato l’immaginario collettivo che possediamo?

Tantissimo, e non sono il solo a dirlo. D’altra parte quel “se” del titolo del mio libro è già l’invito ad una riflessione sulle conseguenze della rottura, soprattutto novecentesca, del rapporto tra gli artisti e la Chiesa cattolica, che per secoli ha rappresentato il motore principale dell’arte. Il Novecento ha voluto liberarsi del Dio cattolico, ma, di fatto, non si è liberato della sua immagine. Nel libro questo si coglie chiaramente. Pensiamo, per esempio, alle continue citazioni delle Scritture giudeocristiane e dei simboli cristiani nei film di Luis Buñuel, o all’ossessione tutta novecentesca, di Picasso in prima fila, per il tema della crocifissione, o alle contaminazioni con l’immaginario cattolico di tutta la produzione dell’arte postmoderna.

Ma cosa si intende per arte sacra?

Questa domanda introduce allo snodo fondamentale del percorso proposto nel mio libro. Seguendo le intuizioni di studiosi come Titus Burckardt, ritengo infatti che l’arte sacra sia l’espressione confessionale delle varie religioni, legate ognuna a testi propri di riferimento e a riti identificativi dello spirito di ognuna di esse. Questa visione dell’arte sacra permette di accedere ad una fase pre-confessionale in cui esiste semplicemente “il sacro” come concetto antropologico. Forse per evitare questo tipo di confusione antropologi come Rudolf Otto e Mircea Eliade hanno preferito dare alle manifestazioni del sacro dei nomi nuovi, come numinosum (Otto) o ierofania (Eliade). Un esempio può aiutare a spiegare questa distinzione per me fondamentale tra arte sacra e sacro antropologico. Le tre grandi religioni monoteiste hanno tutte un rapporto con la “pietra”. Nell’ebraismo una stele di pietra ascolta le parole del patto di alleanza che viene sancito tra Jahvé e il suo popolo e varie pietre compaiono nella storia dei patriarchi a indicare i luoghi sacri del loro passaggio. Nell’islam la pietra nera incastonata nella Ka’ba indica la funzione purificativa ed espiatoria del pellegrinaggio alla Mecca. Infatti, secondo quella tradizione religiosa, essa era bianca, ma adesso è nera perché si carica dei peccati di tutti i pellegrini. Infine, nel cristianesimo, la pietra è Cristo e quindi l’altare di pietra esprime il luogo in cui si rinnova il suo sacrificio espiatorio per i peccati dell’umanità nel rito dell’eucaristia. Come si vede i tre significati sono strettamente legati all’identità delle tre religioni: l’ebraismo con la sua centralità della Parola; l’islam con la sua idea di sottomissione ad Allah; il cristianesimo con il suo cristocentrismo. Ebbene, precedente a quest’uso simbolico della pietra nelle tre religioni, esiste la sacralità della pietra. Per Mircea Eliade «la ierofanìa della pietra è un’ontofanìa per eccellenza: innanzitutto la pietra è, e rimane sempre la stessa». Questo spiega perché a esempio noi conserviamo le pietre di un luogo caro alla nostra memoria. Senza saperlo noi diamo un valore sacro alla pietra perché ci dà il senso della stabilità dell’essere in forza della sua durezza e refrattarietà. Ma questo spiega anche perché l’umanità è affascinata dalla grandezza delle pietre, in quanto rappresentano una potenza assoluta di energia. «La costruzione di quegli enormi blocchi di pietra, grezzi o lavorati, da soli o disposti in grandi cerchi, aveva probabilmente in origine il senso di accumulare in grandi quantità e localizzare il numinoso e la sua “forza”», scrive Rudolf Otto nel suo famoso trattato sul “sacro”. Pensiamo ai vari monoliti preistorici, dolmen, menhir, piramidi, teocalli, obelischi (ai quali dobbiamo aggiungere anche il senso antropologico dell’energia rappresentata dal fallo); pensiamo, fra tutti gli esempi, a Stonehenge. Ecco, nel mio libro, avviata questa distinzione, mi diverto a viaggiare alla scoperta delle ierofanie dell’arte novecentesca.

Nel libro sono presenti spiegazioni,  connessioni di idee e momenti storici. Come mai tutto questo non viene mai insegnato?

È uno dei motivi per cui prima mi sono allontanato e poi, invece, ho deciso di riavvicinarmi alla storia dell’arte. Non sopportavo quelle spiegazioni degli stili che mi ricordavano le spiegazioni dei capi di moda nei commenti televisivi di Bianca Maria Piccinino (la mia generazione di ultracinquantenni sa di che cosa parlo). Nel mio libro cerco invece le connessioni storiche, culturali, filosofiche che generano i fenomeni artistici. Certo, corro qualche volta il rischio di chiedere troppo al lettore, ma penso sia sempre meglio di non domandargli niente. Ritengo infatti che ogni lettura deve essere un nuovo sforzo di comprensione della realtà da parte di chi legge. Almeno sempre così io ho letto i libri. Il libro deve essere una salita culturale che rinforza il proprio pensiero.

L’evoluzione dell’arte sacra, secondo te, è stata forzata o è stato un processo naturale legato all’evolversi della società?

É stato un percorso che, ad un certo punto, ha visto la Chiesa decisamente spiazzata: da una parte c’era l’ostilità degli anticlericali e la perdita di appeal economico dopo le varie espropriazioni della rivoluzione francese e dell’unità d’Italia, dall’altra si manifestava un irrigidimento e quindi un’incapacità interna di rinnovarsi. Di fatto, tra la rivoluzione francese e l’inizio del Novecento la rottura tra Chiesa e Arte è consumata; e la Chiesa, che era una potente fabbrica di immagini, si è ritrovata a ripiegarsi sui rassicuranti moduli michelangioleschi, o, al limite, caravaggeschi. Fino a quando Paolo VI nel 1964, parlando agli artisti proprio nella Cappella Sistina, pronunciò la famosa frase: «Vogliamo fare la pace, qui, oggi? Vogliamo ritornare amici?».

Nietzsche affermò che Dio è morto. Questa celebre frase va contestualizzata in campo artistico?

Senza questa frase non si capisce il Novecento artistico. Proprio a Nietzsche dedico diverse pagine, perché a partire dal suo proclama della Gaia Scienza  si possono leggere più facilmente molti fenomeni artistici del Novecento, già interni alle stesse avanguardie storiche, primo fra tutti l’irrompere del dionisiaco in tutte le arti, a partire dalla musica, per arrivare alla danza, alla poesia, alle arti visive. Senza Nietzsche non si capirebbe, ad esempio, l’uso del corpo nell’arte del Novecento.

L’immagine di Dio nel 2022.

Una domanda difficilissima. Da una parte la morte di Dio, avvenuta non nel suo letto, ma – secondo il racconto di Nietzsche – inflitta da insanguinati coltelli umani, ha provocato un rigurgito pazzesco di violenza mimetica e una ricerca incessante di nuovi capri espiatori. Oggi la nostra società è affamata di vittime, e, ahimè, ancora le trova. Basta individuare il più debole per additarlo come causa del male di tutti e ucciderlo. Da qui l’escalation della violenza brutale a tutti i livelli. Laddove invece Dio riappare, dobbiamo purtroppo dirlo, viene spesso utilizzato in senso fondamentalista come tappabuchi, come proiezione della volontà di potenza di alcuni, come immagine compensativa della propria inconsistenza esistenziale o del bisogno di coesione di un gruppo; una visione aberrante, che mi ha sempre fatto paura, dentro e fuori dalla Chiesa. Da qui, giustamente, le prese di distanza di molti atei, che però spesso fanno dell’ateismo un’altra religione altrettanto pericolosa. E così si passa dalla padella alla brace. Infine, però, c’è l’immagine inafferrabile di un Dio che è Amore. È quella che cerco, quella per cui vorrei vivere e per cui vale la pena morire. È il Dio di Gesù Cristo. Quello che il Novecento ha salvato oltre tutte le prese di posizione a favore o contro la religione. E credo che il volto di Gesù, ancora oggi, rimanga per gli artisti, l’immagine più credibile di Dio.

Da leggere! Se Dio non vale un quadro

Articolo di: Luca Ramacciotti

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