A tu per tu con Chicco Evani che ci parla del suo libro “Non chiamatemi Bubu”, presso Le Pavoniere di Prato
Nel bellissimo contesto de Le Pavoniere Golf&Country Club di Prato, Chicco Evani, vice allenatore della Nazionale di Calcio degli Europei, ha presentato il suo libro Non chiamatemi Bubu, alla quale è seguita una cena di solidarietà con lotteria a supporto del reparto di radioterapia oncologica di Careggi.
Perché l’esigenza di scrivere “Non chiamatemi Bubu”?
Ho incontrato per caso una giornalista, Lucilla Granata, che aveva scritto una biografia ad un mio collega, io da tempo tenevo una sorta di diario, gliel’ho fatto leggere e piano piano è nato il libro. Perché per me è sempre stato difficile esprimere i miei sentimenti soprattutto alle persone più care, è stata una sorta di terapia psicologica con la quale ho cercato di smussare alcuni angoli un po’ spigolosi del mio carattere. Sono partito da casa per inseguire il sogno del caso a 14 anni, a 15 sono rimasto orfano di padre. I miei mi hanno certamente voluto bene, ma raramente me lo hanno dimostrato. Grandi lavoratori hanno portato avanti con dignità il loro ruolo di genitori.
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A chi ha affidato la prefazione?
Ad Arrigo Sacchi, che mi ha descritto con delle parole che mi hanno toccato il cuore. In questo libro mi racconto cercando di mettermi a nudo e con aneddoti inediti. Tratto l’amore che fin da bambino ho avuto per il calcio. Una passione irrefrenabile verso il pallone, definito ‘un amico fidato e sincero’. Parlo della sua numerosa famiglia, dei miei fratelli e dei miei laboriosi genitori.
Cosa si ricorda della sua carriera di calciatore?
La mia carriera l’ho vissuta quasi interamente nelle fila del Milan, sono stato benissimo per tanto tempo e mi sono anche molto divertito. Ho vissuto emozioni incredibili, vittorie straordinarie, ho conosciuto compagni di squadra e amici che non ho mai perso negli anni. Anche dopo la fine della mia carriera.
È più difficile scrivere un libro o allenare una squadra di calcio?
Certamente scrivere un libro, perché mi sono dovuto aprire, uscire dal mio guscio. Allenare è stato più naturale, ho iniziato da squadre piccole con ragazzini, per poi crescere sia come importanza di squadra che come età dei ragazzi allenati.
Cosa ci dice per i futuri Mondiali?
Incrociamo le dita…
Intervista di: Daniela Lombardi