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Si chiude l’anno che ha sconvolto il pianeta

Il 2020 l’anno in cui è accaduto tutto quello che pensavamo non sarebbe mai successo, ma anche l’anno che ci ha aperto gli occhi sulla crisi ecologica provocata dalle nostre azioni, volge al termine. Il WWF prova a tirare una linea attraverso una carrellata di avvenimenti che hanno messo in evidenza in modo drammatico come gli ecosistemi del nostro Pianeta siano, ormai, al limite e come questo influisca in modo diretto sulla nostra salute, sulla nostra sicurezza e sulle nostre vite. 

Il cambiamento climatico che ci costringono ad affrontare catastrofi sempre più frequenti. Il commercio di animali selvatici collegato con le malattie zoonotiche, la deforestazione che sta portando al collasso inarrestabile (tipping point letteralmente ‘punto di non ritorno’) sistemi vitali per il pianeta come la foresta amazzonica o gli incendi che hanno cancellato milioni e milioni di ettari di territorio australiano, portando il koala e altre specie più vicine all’estinzione.

Grafica Divina

Se c’è una lezione che dobbiamo imparare dal 2020 è che la nostra salute dipende dalla salute della natura. Niente su questo pianeta ci è indifferente: la crisi climatica, la scomparsa delle foreste, la distruzione degli ecosistemi, l’estinzione di specie e habitat, i nostri consumi e la produzione insostenibile di cibo hanno un effetto boomerang sulle nostre vite.

Non c’è più tempo per discussioni infinite su impegni che non si trasformano mai in fatti; non c’è più tempo per politiche attendiste o sbagliate; non abbiamo più tempo per costruire un futuro sostenibile in cui ricostruire la natura che abbiamo perso. Se vogliamo difendere la nostra salute e la nostra sicurezza non dobbiamo più parlare al futuro ma al presente rispetto alle grandi sfide ambientali. Ogni decisione, ogni scelta, ogni investimento deve contribuire immediatamente alla conversione ecologica di cui abbiamo bisogno per proteggere la nostra salute e il nostro futuro.

L’Australia devastata dagli incendi

Mentre il primo mese del 2020 viene dichiarato il più caldo mai registrato in 141 anni, l’Australia brucia. Il fronte dei roghi, la portata delle fiamme e la superficie interessata, hanno raggiunto dimensioni da record assoluto e le immagini dei koala e dei canguri ustionati raccontano al mondo il dramma vissuto dalle foreste australiane. Davanti a noi i mega-fires: nuova generazione di incendi, con un’estensione superiore ai 40.000 ettari (400 chilometri quadrati) e fiamme praticamente incontenibili, associati a condizioni insolitamente calde e secche, conseguenza diretta del cambiamento climatico, che ha innalzato di oltre 1°C la temperatura media della superficie del pianeta. Per quanto la vegetazione di molti ecosistemi forestali abbia la capacità di riprendersi e rigenerarsi dopo gli incendi, l’intensità e la frequenza di questi eventi rischiano di determinare la definitiva scomparsa di molti habitat forestali e delle specie che ospitano. Quasi tutti i 500 mega-incendi più disastrosi dell’ultimo decennio si sono verificati in condizioni insolitamente calde e/o secche, quelle favorite dal cambiamento climatico in corso. In Australia, infatti, gli incendi sono stati agevolati da temperature massime da record assoluto, che in alcuni casi hanno superato i 40°C per giorni, e da un’insolita circolazione atmosferica sull’Oceano Indiano, che ha portato a siccità record in Oceania e piogge inaspettate in Africa orientale. Le fiamme in Australia hanno distrutto più di 19 milioni di ettari, cancellato numerose vite umane e – secondo le stime del WWF – ucciso più di 3 miliardi di animali. 

“A causa del continuo aumento delle temperature globali i mega-incendi potrebbero diventare la nuova normalità”, ha detto Niklas Hagelberg, esperto di cambiamenti climatici del Programma delle Nazioni Unite per l’Ambiente (UNEP).

L’effetto boomerang della distruzione degli ecosistemi sulle Pandemie

L’ 11 marzo l’OMS dichiara ufficialmente l’infezione da nuovo coronavirus SARS-CoV-2 pandemia. E sulla base delle numerose ricerche scientifiche pubblicate negli ultimi anni in tutto il mondo, il WWF denuncia come le sempre più frequenti malattie emergenti, trasmesse dagli animali all’uomo (malattie zoonotiche, tra cui il Covid-19), non siano altro che la conseguenza della distruzione degli ecosistemi e la gestione insostenibile della fauna selvatica. Malattie come SARS, MERS, Ebola, Zika, Febbre aviaria, non sono catastrofi casuali ma la conseguenza del nostro impatto sugli ecosistemi naturali. L’uomo, con la propria attività, ha alterato in maniera significativa i tre quarti delle terre emerse e i due terzi degli oceani, determinando la nascita di una nuova epoca denominata Antropocene.

Secondo l’IPBES (Intergovernmental Science-Policy Platform on Biodiversity and Ecosystem Services) sono 1,7 milioni i virus “non scoperti” nei mammiferi e negli uccelli, 827.000 dei quali potrebbero infettare l’uomo, mentre il costo economico dell’attuale pandemia è 100 volte quello stimato per prevenirla, proteggendo la natura. Per evitare future pandemie è necessario fermare la scomparsa di ecosistemi cruciali, partendo proprio dalle foreste tropicali, e considerare la salute umana indissolubilmente collegata a quella dell’ambiente e degli altri animali, come descritto nell’approccio One Health.

Il commercio illegale di animali selvatici e le malattie zoonotiche

Il WWF Italia intervista Jared Diamond (autore di “Armi, acciaio e malattie”), e lui non ha dubbi: “L’epidemia da Coronavirus non si sarebbe mai diffusa se 17 anni fa, dopo la SARS, i cinesi avessero chiuso i mercati di animali selvatici vivi”.

L’associazione del Panda risponde lanciando una petizione per chiedere all’OMS la chiusura dei wet market, i mercati dove il commercio insostenibile di animali selvatici mette a rischio la salute umana. Un traffico che avviene in condizioni igienico-sanitarie inesistenti e a stretto contatto con le persone che affollano ogni giorno quei luoghi. È proprio da questa promiscuità che i virus riescono a passare da specie a specie e dagli animali all’uomo con un “salto di specie” chiamato spillover. Pare sia stato proprio questo il meccanismo con cui dal mercato cinese di Wuhan, si sia generata l’epidemia da Covid-19. Purtroppo, né l’impatto sulla nostra salute, né le sofferenze e il triste destino che devono subire gli animali vittime di questo brutale traffico hanno convinto tutti i paesi asiatici a fermare la vendita di animali selvatici nei loro pericolosi mercati. Nonostante un sondaggio commissionato proprio dal WWF abbia dimostrato come il 90% dei cittadini di 5 paesi asiatici siano in realtà favorevoli alla chiusura di questo vero scempio.

La natura riconquista le città

I cittadini del mondo, intrappolati in lunghi lockdown primaverili, assistono stupiti al dirompere della natura in città. Qualcosa di più grande e più temibile costringe l’homo sapiens a fermarsi. Crollano i livelli di inquinamento atmosferico, scompare il traffico, diminuiscono rumore e presenza umana. Come dimostrano studi pubblicati recentemente i regimi di lockdown, in Italia e in molti altri paesi hanno facilitato la conquista da parte di specie selvatiche di nuovi habitat, compresi quelli urbani e, più in generale, hanno permesso a molte specie altrimenti notturne o crepuscolari di sviluppare una maggiore sicurezza e a un’attività diurna più intensa. I cittadini hanno potuto così assistere alla presenza di cervi, lupi e altre specie selvatiche fin dentro i centri urbani. Le acque di Venezia, finalmente limpide, tornano appetibili per cavallucci marini, smerghi e altri uccelli acquatici. I parchi urbani diventano indisturbati territori di caccia per le volpi e tranquilli pascoli per le lepri. Nei porti in quarantena tornano indisturbati i delfini. Le fontane dei centri storici attirano anatre selvatiche. Infallibili gheppi hanno potuto ghermire lucertole e topi nei giardini condominiali.

Ma gli effetti dell’interruzione del disturbo umano si sono visti anche fuori dai centri abitati: si sono ridotti gli investimenti lungo le strade, meno inquinamento (soprattutto acustico) e meno collisioni con grandi navi per i mammiferi marini; rospi e altri anfibi hanno potuto raggiungere le acque dove riprodursi senza rischiare di finire schiacciati. Gli uccelli in città, per qualche mese, hanno smesso di sgolarsi per farsi sentire dai propri compagni (Gli scienziati hanno constatato come gli uccelli in città siano costretti a cantare più forte). 

Purtroppo, però, su una scala più grande e preoccupante, l’improvvisa frenata delle attività umane ha portato a conseguenze negative sulla conservazione della natura: da una parte si sono seriamente ridotti turismo ambientale e fondi disponibili per la conservazione e la gestione della natura nelle aree protette, dall’altra la crisi economica di molti paesi in via di sviluppo ha di fatto aumentato localmente la pressione sulle risorse naturali.

Ghiaccio bollente

Mentre l’intero pianeta inizia ad affrontare la pandemia e il suo effetto drammatico sulle nostre vite, niente ferma il riscaldamento globale. Il continente antartico è in totale “fusione”: paesaggi un tempo candidi e bianchi, grandi condizionatori del pianeta, mostrano ora le ferite di una terra scura e sassosa non più protetta dai ghiacci. Le temperature record dell’estate antartica sono la conseguenza della prima heat wave (ondata di calore), mai registrata prima in questo continente. In meno di 9 giorni le temperature abnormi – che hanno portato alcune zone del luogo più freddo del pianeta a + 18,3°C – hanno determinato una drammatica fusione dei ghiacci, con picchi di perdita del 20%. “Bastano pochi giorni di caldo estremo perché si fonda il ghiaccio accumulato in millenni – dice la ricercatrice Zoe Thomas dell’Università del Nuovo Galles del Sud (Australia) – e una volta che la calotta dei ghiacci antartici avrà superato un punto di non ritorno, la fusione continuerà a discapito delle azioni correttive che l’uomo potrà mettere in piedi”. La quantità di ghiaccio perso ogni anno in Antartide è aumentata di 6 volte dal 1979 e il 2017. L’avanzare del riscaldamento globale, che ha una progressione assai più rapida proprio nelle regioni polari, (praticamente doppio rispetto all’aumento delle temperature medie del pianeta) si ripercuote su tutto il sistema climatico planetario. Le temperature in Antartide influiscono sul funzionamento della circolazione profonda degli oceani, alterando uno dei sistemi più importanti per il funzionamento della biosfera. Se dovesse fondersi completamente la calotta glaciale antartica, ciò porterebbe all’innalzamento del livello degli oceani addirittura fino a 60 metri, mettendo a rischio il futuro di migliaia di città, miliardi di persone e interi sistemi produttivi.

La situazione non è migliore dall’altra parte del pianeta. A giugno 2020, in Siberia, nel circolo polare artico, si registra un nuovo caldo record con temperature che arrivano a 38,5 °C. L’ondata di calore ha provocato nuovi incendi e la fusione del permafrost. La scomparsa del permafrost rischia, secondo gli scienziati, di aumentare esponenzialmente la quantità di gas serra immessi in atmosfera.

Drammatici sversamenti a Mauritius e in Siberia

La grave fuoriuscita di combustibili fossili avvenuta il 25 luglio 2020 al largo della costa dell’isola Mauritius ha provocato drammatici impatti sul delicatissimo ecosistema costiero e sulle comunità che dipendono da queste risorse per la loro economia. Il carburante sversato ha contaminato le aree costiere delle Isole Aigrettes nella baia di Mahebourg (Riserva Naturale) e il Parco Marino Blue Bay, un importante sito Ramsar (Convenzione sulle zone umide di importanza internazionale), designato nel 2008 e noto per la sua eccezionale diversità corallina. Questo tragico episodio evidenzia ancora l’assenza di una strategia coordinata che garantisca un’efficace gestione integrata degli oceani, offrendo una risposta immediata ed efficace a questo tipo di incidenti, ma soprattutto che prevenga in tutti i modi tali disastri in futuro. Poche settimane prima un altro disastro ecologico ha messo a rischio habitat ed ecosistemi incontaminati nella siberia Russa. Sopra il Circolo Polare Artico, il 29 maggio, oltre 20.000 tonnellate di carburante diesel si sono sversati da un serbatoio di stoccaggio crollato. 

Il combustibile si è riversato nel fiume Ambarnaya, creando un disastro ecologico  negli ecosistemi raggiunti dalle acque. A provocare l’incidente sembra essere stato il crollo del serbatoio dovuto alla fusione del permafrost su cui poggiavano i pilastri della struttura. La fusione del permafrost è una pericolosa conseguenza del riscaldamento globale che, oltre a liberare in atmosfera ingenti quantità di gas serra tra cui il pericoloso metano, mette a rischio il territorio e le attività dell’uomo. Secondo il WWF Russia le sostanze chimiche tossiche lasciate dalla fuoriuscita di carburante potrebbero avere un impatto sulla regione per i prossimi decenni, minacciando non solo i pesci, ma anche uccelli e renne selvatiche.

Brucia la California

Ad agosto 2020 anche la California si trova ad affrontare una drammatica stagione di incendi, che distrugge una superficie di foreste e di vegetazione due volte superiore a quella totalizzata durante i peggiori incendi dello stato americano: 9.639 incendi coprono una superficie di 17.000 km2 e uccidono 33 persone. Negli ultimi anni, la California ha vissuto alcune delle peggiori stagioni di fuoco selvaggio della sua storia. Con siccità e ai venti forti, gli incendi bruciano più terreni, più a lungo e in maniera più intensa, con conseguenze devastanti per le comunità e la natura. Gli incendi sono un fenomeno naturale nell’America dell’Ovest, ma con un innalzamento delle temperature causato dal cambiamento climatico e stagioni secche sempre più intense, le foreste diventano più suscettibili ai mega-fires.

“Il cambiamento climatico gioca un ruolo molto importanti negli incendi in California” ha  dichiarato Anita van Breda, senior director of environment and disaster management del WWF-US. “Gli incendi in California oggi bruciano circa cinque volte di più di quanto bruciassero negli anni ’80 e questo, oltre ad una gestione del territorio sbagliata, è sicuramente dovuto anche al cambiamento climatico che oltre a incidere sulle temperature ha un effetto negativo sugli ecosistemi”. Il fumo degli incendi californiani è talmente intenso da raggiungere il Nord d’Europa. Ma la California non ha a che fare solo con gli incendi: secondo recenti studi, in tutto il territorio, la frequenza dei fenomeni climatici estremi è più che raddoppiata solo negli ultimi quattro decenni.

L’allarme del Living Planet: in 50 anni persi quasi 7 vertebrati su 10

Nel mese di settembre il WWF ha pubblicato i risultati del Living Planet Report, realizzato in collaborazione la Zoological Society of London e con centinaia di scienziati e strutture di ricerca nel mondo. I risultati mettono in luce una componente molto seria della crisi ecologica che il pianeta sta affrontando a causa dell’uomo: la perdita di natura. In meno di 50 anni abbiamo assistito ad un declino del 68% delle popolazioni selvatiche degli animali a noi più familiari, mammiferi, uccelli, rettili, anfibi e pesci. Una crisi riconosciuta anche dalle principali istituzioni – tra cui il World Economic Forum – come uno dei principali rischi che l’umanità si trovi oggi ad affrontare.

A pochi giorni di distanza dalla pubblicazione del Living Planet report, i capi di Stato e di governo di più di 70 paesi, che coprono i cinque continenti, e il Presidente della Commissione Europea per l’Unione Europea hanno partecipato al primo summit dedicato alla biodiversità nell’ambito dell’assemblea annuale dell’ONU. Durante l’evento, i leader del pianeta, si sono impegnati a invertire la perdita di natura entro la fine del decennio. I Paesi che hanno sottoscritto l’impegno rappresentano più di 1,3 miliardi di persone e più di un quarto del PIL mondiale. Il Summit ONU ha riconosciuto la valenza catastrofica della perdita globale di biodiversità, che mette a rischio la salute umana e i nostri mezzi di sussistenza e sottolinea con molta enfasi i collegamenti tra le pandemie globali e la distruzione e il degrado della natura. I capi di stato e di governo hanno evidenziato la mancanza nello scorso decennio, di un’adeguata capacità d’azione nonché l’urgenza di un’iniziativa che miri a contrastare la perdita di biodiversità e ponga la natura sulla strada della ripresa. Molti paesi hanno deciso di assumere nuovi impegni, ma su scala globale c’è ancora molto da fare per arrestare la crisi dei sistemi naturali.

Parlamento Europeo: un passo avanti e uno indietro

A ottobre la maggioranza sceglie il clima. Il Parlamento europeo vota in plenaria per una riduzione del 60% delle emissioni di gas serra entro il 2030, prendendo una posizione molto più avanzata rispetto al taglio del 55% delle emissioni proposto dalla Commissione. Tuttavia, un obiettivo del 60% per il 2030 non è ancora in linea con ciò che ci chiede di fare la scienza per avere una possibilità di evitare i peggiori impatti provocati dal cambiamento climatico. Il WWF e altre organizzazioni della società civile hanno chiesto una riduzione delle emissioni di almeno il 65% entro il 2030, e un obiettivo separato per la rimozione del carbonio attraverso l’assorbimento da parte del suolo e delle foreste.

Gli eurodeputati dimostrano che per imboccare la strada del futuro occorrono coraggio e obiettivi sfidanti, dando un contributo a indirizzare il confronto. Un coraggio che va dimostrato anche dagli Stati, nella consapevolezza che oggi resistere alla transizione, invece di accelerarla, vuol dire perdere posizioni e occasioni economiche e sociali per il futuro. Per l’Italia questa è un’ occasione irripetibile: se riusciremo ad attuare uno sviluppo coerente, innovativo e soprattutto in linea con gli obiettivi climatici, entro il 2030 non avremo solo una forte riduzione delle emissioni di CO2, ma anche un aumento del 30% del PIL e, soprattutto, un aumento del benessere di tutti, perché l’economia decarbonizzata porta moltissimi co-benefici, come ha dimostrato anche il Report Ossigeno per la crescita

Purtroppo sempre ad ottobre, il Parlamento europeo, vota a favore di emendamenti che mettono a serio rischio la riforma delle politiche agricole europee, ostacolando di fatto il cambiamento che tutti stiamo aspettando in agricoltura. È infatti proprio l’agricoltura la principale responsabile della perdita di biodiversità in Europa e nel mondo e solo un’agricoltura più ecologica potrà fermare la distruzione degli ecosistemi e le pericolose conseguenze sulla nostra salute. Il WWF, insieme alla coalizione #Cambiamento Agricoltura, chiede a alla Presidente della Commissione Europea Ursula Von der Leyen di ritirare la proposta per la Politica Agricola Comune (PAC) post 2020 e non procedere con il negoziato, in quanto gli emendamenti approvati dal Parlamento e Consiglio minerebbero la svolta ecologica del settore. La riforma della PAC è il primo vero banco di prova del Green Deal proposto dalla Commissione Europea: se gli obiettivi delle Strategie Biodiversità 2030 e Farm to Fork non verranno inseriti con coerenza nella PAC, nel corso del Trilogo, sicuramente non potranno essere raggiunti e la transizione ecologica dell’agricoltura europea sarà un tragico fallimento. La richiesta delle Associazioni europee si unisce alla voce dei ragazzi di Fridays for Future che con l’hashtag #WithdrawtheCAP stanno chiedendo alla Commissione Europea un’agricoltura non avvelenata che protegga il loro futuro e contribuisca seriamente alla lotta ai cambiamenti climatici.

Deforestazione record in Amazzonia

A novembre, mentre l’umanità paga i devastanti impatti della diffusione della pandemia in tutto il mondo, in Amazzonia le foreste tropicali, nostro vero grande vaccino contro la diffusione di malattie e cruciale elemento degli equilibri climatici, continuano a scomparire. La deforestazione raggiunge livelli mai registrati negli ultimi 12 anni. La scomparsa di questo straordinario bioma, che accoglie il 10% della biodiversità del pianeta e svolge una lunga serie di servizi essenziali per la nostra sopravvivenza, aumenterà drammaticamente la nostra vulnerabilità ai cambiamenti climatici e renderà le nostre vite e la nostra salute ancora più a rischio. Come denuncia il WWF nel suo report “Quanta foresta avete mangiato, usato e indossato oggi” una grandissima parte della deforestazione (fino all’80%) è dovuto ai nostri stili di vita. I consumi dell’Europa sono responsabili del 10% della deforestazione globale, che avviene prevalentemente al di fuori dei confini dell’UE. Un ruolo particolare lo svolge l’Italia, tradizionale importatore di materie prime come legname, carni, soia, olio di palma, caffè, cacao, cuoio e altro ancora, tutti prodotti ad alto contenuto di deforestazione. Negli ultimi 30 anni sono stati deforestati 420 milioni di ettari di terreni, più o meno quanto la superficie dell’intera Unione Europea, gran parte dei quali in aree tropicali. Ogni anno vanno persi circa 10 milioni di ettari a causa della conversione di foreste in terreni agricoli. Un danno enorme sia per la biodiversità, visto che circa l’80% delle specie animali e vegetali terrestri del pianeta vive nelle foreste, sia per gli effetti drammatici sui cambiamenti climatici: la perdita di foreste amplifica la crisi climatica. 

Per liberare l’importazione UE da prodotti che causano deforestazione nel mondo, la coalizione ambientalista #Together4forests coordinata da WWF, Greepeace, ClientEarth, Conservation International e Environmental Investigation Agency ha lanciato un’intensa campagna che mira ad ottenere un Regolamento europeo capace di garantire ai consumatori l’estraneità dei prodotti acquistati dalla deforestazione e dalla trasformazione degli ecosistemi naturali (savane naturali e praterie). Il 14 novembre la coalizione ha consegnato al Vice Commissario Timmermans e al Commissario all’Ambiente Sinkevičius, il risultato della consultazione pubblica sulla deforestazione che, grazie alla mobilitazione internazionale ha raccolto 1.193.652 milioni di firme. La più partecipata consultazione pubblica sulle questioni ambientali della storia dell’UE, e la seconda più grande di sempre. 

Il grande sorpasso

La massa degli oggetti di origine antropica, come palazzi, strade e macchine supera in peso la biomassa. É un altro tragico primato raggiunto dall’umanità, che consegnerà alla storia il 2020 come l’anno che ha sconvolto il pianeta.

La forza di una sola specie – l’homo sapiens – è riuscita a cambiare i connotati e gli equilibri della Terra, ad una velocità ed intensità tale da aver dato origine a quella che gli scienziati hanno chiamato “Antropocene”.  Gli impatti umani sono riconducibili non solo alla trasformazione della biomassa (si pensi ad esempio alla sostituzione di mammiferi selvatici che costituiscono oggi solo il 4% del peso della biomassa con la biomassa dei mammiferi allevati, che contano per il 60%. Il restante 36% siamo noi umani), ma anche alla produzione di materia e oggetti artificiali, che vengono in gran parte realizzati a scapito e impattando sui sistemi naturali.

Oggi, secondo una ricerca pubblicata su Nature, questa produzione “human made” ha raggiunto e superato quella “nature made” aprendo scenari preoccupanti. Solo in termini di plastica prodotta, secondo i ricercatori, ce ne sono 8 miliardi di tonnellate superando il peso degli animali che arriva solo a 4 miliardi di tonnellate. L’umanità, che in termini di peso rappresenta lo 0,01% degli esseri viventi, produce una quantità vortiginosa di prodotti come cemento, asfalto, macchinari, plastica, etc.  Secondo i ricercatori, ogni settimana in media, generiamo l’equivalente in peso dell’intera umanità (quasi 8 miliardi di persone). Ciò avviene anche a spese del patrimonio naturale che, sulla bilancia ha un peso sempre più esiguo. In 5000 anni (dall’avvento dell’agricoltura ad oggi) il peso del patrimonio naturale del pianeta si è dimezzato, passando da 2 mila miliardi di tonnellate a poco più di una, questo soprattutto a causa della perdita delle foreste.

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