Bruce Springsteen
Letter To You
(Columbia Records / Sony Music)
Non crediamo siano esistiti nella storia della musica cosiddetta leggera tanti come Bruce Springsteen. Artisti cioè capaci di ridarti energia e di spronarti a credere ancora nel domani, proprio mentre in modo struggente ti squarciano l’anima; mettendone a nudo comuni, dolorose fragilità. Springsteen, lui, sa invece da sempre, come si scuotono i cuori accarezzandoli col potere di musica e poesia, e come si leniscono le ferite incidendole con la lama della verità d’un cantautorato rock abrasivo, coinvolto, profondissimo, impossibile da ignorare.
E così anche l’attesa rentrée del Boss ai dischi, a un anno dal viaggio nell’universo della musica a stelle e strisce di “Western Star”, e con la maiuscola compagnia sonora della E Street Band che torna a rafforzarne la voce per la prima volta dal 2016, è un album non solo imperdibile: ma forse, pure, proprio necessario.
Come “Born In The USA”, come “The Rising”, come molti di questo 71enne del New Jersey che per la sua “Letter To You” in uscita mondiale il 23 ottobre ha scritto in dieci giorni (ipse dixit) nove capolavori: affiancandoli poi ad altri tre brani della stessa risma qualitativa ripescati da cassetti chiusi negli anni Settanta.
(E se tanto ci dà tanto, chissà quante altre gemme ci sono in quei cassetti) Musicalmente parlando, “Letter To You” è un ritorno alle ruvidità eleganti ed originali del Boss delle origini, che solo la E Street Band in effetti poteva restituire -anche loro, suonando in presa diretta in solo cinque giorni…- in modo tanto perfetto quanto verace, lirico quanto urticante, teso quanto delicato.
Per accompagnare dell’artista pensieri alti che spaziano fra ieri e oggi, politica e fede, la terapia che sa essere la musica e la solitudine di chi la fa per mestiere; finendo col dilatare e approfondire in toto prospettive e paure dell’umanità odierna. La quale crediamo dunque possa, fors’anche debba, riconoscersi con attenzione nel nuovo album di Springsteen: cui lui ha acceso il motore creativo riflettendo sulla vecchiaia (come l’ultimo Dylan) proprio che ora, forse, in era Covid è tutta l’umanità che si sente invecchiata, impaurita, senza più le sicurezze d’un mondo d’improvviso capovolto.
Si coglie dall’abbrivio, che “Letter To You” promette bene e lascerà il segno: nel chitarra e voce di “One Minute You’re Here”, canzone intensa e lirica con cui il Boss affronta la solitudine dell’essere umano -fra ricordi e prese di coscienza- cantando “Pensavo di sapere chi ero / e che cosa avrei potuto fare / Ma mi sbagliavo / Un minuto ci sei, un minuto dopo non esisti più”.
E il suo canto dell’umana paura dell’addio, rispetto a Dylan, Springsteen lo condisce con una saporosità terrigna e una palese empatia con gli altri, che subito fa capire che sta cantando di sé, certo; ma pure di noi. La E Street Band entra nel disco davvero con la title-track, solida e tesa lettera d’intenti d’un album dal percorso poetico volutamente genuino e quasi istintivo, che però non rinuncia a rilanci verso momenti e sottotesti di accorata profondità.
Il “tu” cui qui il Boss scrive è quantomai generico: il suo è uno sfogo universale e umanissimo, dunque fiero quanto fragile, davanti alla vita, all’orgoglio d’averla vissuta da uomo, alla paura di perderla. E l’album poi esplode e conquista in modo definitivo con “Burnin’ Train”, chitarre stridenti e parole che alzano la posta per cantare la fede laica dell’amore: unico valore che, se puro, possa riscattare e salvare il Caino che si nasconde in noi tutti.
Certo, a commentare “Letter To You” intuizione per intuizione (o emozione per emozione) occorrerebbero pagine. E vorremmo risparmiarvelo, consigliandovi di ascoltarlo appena potrete. Però che dire della cinematografica e psicologicamente intensa “Janey Needs A Shooter”, canto d’una donna sola che non può certo venir consolata da chi oggi usa scienza, fede e giustizia come fredde armi? E che dire del rock ancora di salvezza, via di fuga, ma anche ultimo domicilio conosciuto di chi di rock vive, cantato nella commossa e autobiografica “Last Man Standing”? C’è poi “The Power Of Prayer”, il potere della preghiera: danzante grido di speranza (anzi di certezza) rivolto all’ultima chiamata del buttafuori con la falce con tanto di risposta alle melanconie di “One Minute You’re Here” nei versi “Dicono che l’amore va e viene / ma che ne sanno? / Io cerco il Paradiso, / e lo creeremo qui”. Poi c’è un Cristo che sarebbe piaciuto a Johnny Cash, quello di “If I Was The Priest”, denuncia di fasulli punti di riferimento ma anche sbruffone, sardonico e molto americano canto dell’esigenza di giustizia, verità e fede portata avanti anche dagli ultimi: perché -dice il Cristo della canzone chiedendo aiuto al protagonista- “Ci sono già troppi fuorilegge in giro”. “Ghosts” è poi un inno alla vita e alla musica come condivisione, nonché crediamo un omaggio ai colleghi della band scomparsi; e “Songs For Orphans” è originalissima denuncia d’una musica anche matrigna, quando genera solitudini e illusioni. Mentre la finale “I’ll See You In My Dreams” riconduce l’album al punto di partenza, un guardarsi indietro che è anche guardare agli altri e guardarsi dentro: medicando ferite, consapevolezze e fragilità nel dire esplicitamente “Perché la morte non è la fine”.
Ma non è ancora finita. Perché, se non soprattutto, ci sono due brani nell’album che pensiamo Springsteen abbia giustapposto volutamente a metà percorso, quali suo centro etico il primo e cardine politico il secondo. Quest’ultimo, “Rainmaker”, è dedicato al Trump ciarlatano e “mago della pioggia”: un brano cupo e torvo, di rabbia rock trattenuta appena, che però non si limita a inquadrare fellonia e inganni, bensì prova anche di capire quali drammi, abbiano spinto tanti a credere nell’illusione. E fortuna che c’è l’invettiva di “Rainmaker” a seguire l’altro brano di cui sopra, il centro etico di “Letter To You”, una “House Of A Thousand Guitars”: canzone melodicamente degna del Songbook USA più nobile, ballad con pianoforte in proscenio e testo smagliante, capolavoro in cui il Boss canta la verità del far musica. O meglio, quanto la musica possa vincere gli inganni, guarire le ferite, dissetare l’anima. Il canto della casa delle mille chitarre è qualcosa che lascia senza fiato, ad ascoltarlo. “Forse la verità risuonerà da ogni baretto di periferia / il disilluso e lo spento si sveglieranno in cerca d’un accordo perduto / Allora svegliati e scuotiti, amico mio / andremo dove la musica non finisce mai / dagli stadi ai bar / saremmo fratello e sorella dovunque / e accenderemo la luce della casa delle mille chitarre”.
Sì, sarà un piacere, anzi appunto sarà necessario, seguire Bruce Springsteen dove e quanto vorrà in questo suo far musica di senso siffatto: sino a ritrovare noi, senso grazie alla musica. E per fortuna, come accennavamo sopra, che questa canzone è subito seguita da un’invettiva politica, soprattutto che non è il finale del disco.
Perché credeteci, se per l’ennesima volta con “Letter To You” Bruce Springsteen scuote e commuove, apre il cuore e fa prendere consapevolezza di tante faccende, beh: con “House Of A Thousand Guitars” il Boss va oltre. Con questo brano lascia davvero senza fiato, con la pelle d’oca e le lacrime agli occhi, a cogliere improvvisamente quanto vale la musica.
O meglio, quanto può valere in certi casi, quando gli artisti sono come Bruce Springsteen.
Articolo di: Andrea Pedrinelli
Da ascoltare/guardare, “Letter To You” (Official video)
https://www.youtube.com/watch?v=AQyLEz0qy-g