Ho incontrato Vanni Santoni alla fine della sua presentazione a Viareggio, presso “Lettera 22”. Il suo ultimo romanzo, I fratelli Michelangelo, sta avendo un ottimo impatto tra il pubblico ed ha acceso un dibattito vivace nel mondo delle recensioni e delle critiche.
- Torni in libreria con un romanzo, I fratelli Michelangelo (Mondadori, 2019) che stupisce subito per il genere narrativo e per l’impianto da romanzo “classico”: come mai, dopo il fantasy e le esperienze ibride tra romanzo e saggio, hai scelto un altro tipo di narrazione?
In realtà quello del realismo è il mio filone principale, come testimoniano il mio primo romanzo lungo, Gli interessi in comune (che dopo dieci anni tornerà in libreria, il prossimo autunno)e il mio esordio Personaggi precari. Anche Muro di casse e La stanza profonda, nonostante fossero “ibridi” con una forte componente saggistica, si collegano a questo filone, non solo stilisticamente, ma anche per personaggi e situazioni in vero e proprio “cross-over”: i loro protagonisti Iacopo Gori, Cleopatra Mancini, Federico Melani, compaiono infatti anche nei miei altri libri. Pure nei Fratelli Michelangelofanno capolino qua e là come comparse figure che hanno già popolato altri miei libri. Ma anche la mia ampia parentesi – tre libri – nel fantastico ha i suoi collegamenti col resto: ho raccontato bene quali, e più in generale come si articola la mia “continuity”, in due interviste, su Crapulae su The Catcher.
L’idea di misurarmi coi miei modelli – da lettore sono cresciuto coi grandi romanzi francesi e russi, oltre che con Thomas Mann – e scrivere un romanzo di quel tipo, tenendo però inevitabilmente conto dell’eredità del modernismo e del postmodernismo, mi ha sempre attratto, solo che per poterlo fare seriamente dovevo prima mettere a punto una strumentazione adeguata.
2) Se tu dovessi descrivere i quattro fratelli Michelangelo a qualcuno che ancora non ha letto il libro, cosa diresti?
Direi anzitutto che sono quattro esuli, ognuno impegnato in un suo nostos, nel suo ritorno a casa. E poi sono quattro persone che covano, ciascuna, una sua personale ricerca, una “quest”, oltre che un confronto col padre. C’è un termine inglese che è calzante: “seeker”, colui che cerca, intendendo tale ricerca anche in senso spirituale.
3) Quale collegamento c’è fra i quattro fratelli di cui tracci l’esistenza attuale e gli stadi purushartha dell’induismo che racchiudono gli obiettivi della ricerca umana?
Se si volesse fare una lettura allegorica del romanzo, di cui le chiavi simboliche sono da ricercare nella “parte indiana” della vicenda di Louis, oltre che in alcuni specifici eventi della parte di Rudra, sì, ogni fratello rappresenta un purusharta, una delle quattro “vie” alla realizzazione personale. Enrico è in cerca di soddisfazioni erotiche (ma anche di un amore che lo porti oltre tutto ciò); Louis corrisponde alla ricerca del benessere economico; Cristiana alla realizzazione attraverso la creazione intellettuale e artistica; infine Ruda rappresenta la realizzazione spirituale: è un vero e proprio mistico, seppur nel corpo e nella mente sbagliata.
4) Nel libro mi ha colpito molto la storia di Cristiana che cerca di affermarsi nel mondo dell’arte con grande difficoltà per la chiusura insita in questo settore, specialmente verso i giovani. Come mai hai voluto focalizzare l’attenzione su questo?
Prima di tutto perché l’arte contemporanea mi interessa e la seguo da sempre: mi affascina in particolare il suo essersi liberata da ogni vincolo: di forma, contenuto, materiale. Si può fare con tutto, in ogni modo, si è fatta pura idea, e questo è qualcosa di straordinario. Dall’altro lato però quello dell’arte è un mondo chiuso, retto da dinamiche rigide e non di rado perverse, in cui le “agenzie di senso” e quelle di valore sono praticamente sovrapposte, e così anche i “guardiani della soglia”. Provare a affacciarsi al mondo dell’arte, catturare opportunità in quell’ambito – che significa anche cercare di frequentare certe città e certi ambienti, come Cristiana che da Firenze si sposta prima a Parigi, poi a Berlino e infine a Londra – è quindi realmente complesso per un giovane, e peggio che mai per una giovane, il che lo rende qualcosa che si presta a una narrazione interessante, permettendo allo stesso tempo anche di raccontare tante opere d’arte e il sottobosco degli aspiranti.
5) Anche il respiro internazionale ha un ruolo fondamentale nel romanzo.
Ho volutamente cercato un respiro internazionale: al di là dell’ambientazione tra Delhi, Tel Aviv, Bali, le capitali europee e la nostra Vallombrosa, il libro ha dentro di sé una decina di lingue diverse e una moltitudine di comprimari stranieri. Questa scelta deriva dal fatto che, ancora prima della globalizzione geografica e quella relativa all’accesso alle informazioni, nelle arti, letteratura compresa, c’è stata una vera e propria globalizzazione delle influenze. Intendiamoci, le influenze internazionali sono sempre esistite, ma oggi è chiaro che chiunque scriva ha un suo “canone privato” fatto di libri che arrivano da ogni parte del mondo, e molto spesso le influenze chiave non sono del suo paese. Quindi mi pareva che non si potesse più neanche pensare un “grande romanzo nazionale” (se mai lo si poteva pensare prima), ma solo piccoli o grandi romanzi transnazionali. C’è poi una dimensione tematica: Enrico, Louis, Cristiana, Rudra, sono un emigrante piccolo-borghese, uno working class e due borghesi, all’interno di un mondo in cui ci sono migrazioni proletarie di massa e in condizioni molto più drammatiche delle loro. Questo è il mondo oggi: si emigra (e in alcuni casi si torna) a tutti i livelli della società, quello dello sradicamento è uno dei paradigmi del nostro tempo.
6) La letteratura ha un ruolo centrale nel libro: citazioni, riscritture di citazioni, titoli, autori affollano le pagine. Quanto di Vanni c’è per esempio in Enrico che, guardando la biblioteca di famiglia, pensa alla propria identità?
Suonerà retorico dire che la letteratura è salvezza, ma per me la biblioteca è e resta la principale fonte di produzione di senso. Del resto, come ricordava Borges, la biblioteca è l’universo stesso, no?
Lavoro molto con l’intertestualità dai tempi di Terra ignota, ho sviluppato nuovi dispositivi in questa direzione con La stanza profonda, e qui alzo ancora il tiro, provando un contatto con libri chiave come il Doktor Faustus di Mann, Niels Lyhne di Jacobsen, Bouvard e Pécuchet di Flaubert, Petrolio di Pasolini e tanti altri. La letteratura è sempre collettiva, dato che scrivere un libro significa inevitabilmente dialogare col canone. I fratelli Michelangelo spinge molto su questo aspetto:è un libro fatto di libri, con dentro molti testi che sono stati per me importanti. Detto questo, la biblioteca di Enrico Michelangelo si è pian piano differenziata dalla mia dato che al consolidarsi del personaggio, essa doveva corrispondere ai suoi gusti e alla sua personalità.
7) SPOILER (non leggere se ancora non si è letto il libro) Il finale non è risolutivo: c’è una dinamica dal ritmo serrato che innesca un’aspettativa precisa poi smentita dal finale. Che significato ha?
Nel finale dei Fratelli Michelangelo c’è un crescendo narrativo e di tensione che prelude alla tragedia. E parlo di tragedie grosse– quelle greche, per capirci. Il romanzo è stato scritto per diversi anni pensando a un finale pienamente tragico, poi via via che i personaggi prendevano forma, che il padre Antonio Michelangelo si coagulava attraverso i loro racconti (e che mi rendevo conto di dove poteva andare la storia), ho capito che si doveva alzare sì la tensione, ma che poi sarebbe stato inevitabile includere una venatura farsesca. Siamo in Italia, del resto. Non c’è spazio qui, e da molto tempo, per drammi che non siano anche farse.
8) In molte recensioni viene data una lettura al tuo romanzo come occasione di confronto generazionale. Era nei tuoi intenti?
In effetti Antonio Michelangelo prende sempre piu’ spazio durante l’evoluzione degli eventi, e diversi dei fratelli arrivano a Vallombrosa con l’idea di chiedergli conto delle sue malefatte, se non proprio di prenderlo per il collo. Lui incarna il prototipo del novecento del “grande maschio bianco eterosessuale”, a cui tutto è sempre stato permesso e a cui tutto è sempre girato bene per un vantaggio storico e posizionale massiccio ma mai discusso. Abbiamo dunque uno scontro generazionale e di intenti fra chi poteva tutto, e tutto gli era concesso, e chi, seppur dotato di talento, forse di un talento superiore a quello del padre, fa fatica ad affermarsi. Ma Antonio Michelangelo può anche rappresentare qualcosa di più: il Novecento, come ha notato Rialti, o addirittura lo stesso romanzo del secolo a lui precedente, secondo l’interessante interpretazione di Paloscia.
9) La precarietà è un tema ricorrente nelle vite dei quattro fratelli che conosciamo piu’ a fondo. Che rapporto c’è tra loro e i Personaggi precari con cui hai esordito?
Un legame esiste, e non solo perché gli epiloghi del libro, come ha acutamente notato Chiara Fenoglio nella sua recensioneper il Corriere della Sera, riprendono quella forma, ma anche perché la precarietà, lavorativa ed esistenziale, è diventata la condizione normale dei più. C’è anche una coincidenza: Personaggi precari è uscito proprio nel 2007, l’anno in cui si svolge I fratelli Michelangelo. La crisi si annusava, si intuiva, ma non era ancora estesa e profonda; i diritti dei lavoratori erano già messi in discussione ma era solo l’inizio… Già oggi è diverso: siamo ormai in un fase di ricostruzione dalle macerie, di riconfigurazione del nostro approccio. I movimenti spontanei che si sono affermati, come quello ecologista e quello femminista, mi sembra che inizino a lanciare qualche lampo in questa notte. Ma certamente la nostra condizione è rimasta quella di una estrema precarietà.
10) Cosa rappresenta Viareggio nel romanzo?
Viareggio, come sa chi ha letto il libro, è lo scenario più importante della prima parte, quella in cui Enrico Romanelli scopre, per bocca della madre, che proprio a Viareggio si è ritirata, di essere in realtà figlio di Antonio Michelangelo. Per me, come per Enrico, Viareggio è la città delle vacanze di quando ero bambino: i pomeriggi lunghissimi, le estati in spiaggia, il “microclima” che tanto piace agli anziani… È con quello sguardo, nostalgico ma non privo di una venatura dolorosa, che do corpo alla città nel libro.
11) Già da qualche anno gli scrittori della nostra generazione hanno portato alla luce il tema del confronto coi padri e con le madri, penso a Teresa Ciabatti e Violetta Bellocchio. Negli ultimi mesi si sono imposti sullo tema due libri che hanno suscitato interesse e dibattito Addio fantasmi di Nadia Terranova e, per la madre, Fedeltà di Marco Missiroli. Come mai tanta attenzione sul tema?
Da direttore della collana di narrativa Tunué mi ero accorto che nell’aria c’era qualche problema con la figura paterna: in tutti i libri di giovani autori, spesso debuttanti, che avevo pubblicato, il padre mancava, oppure era morto, o ancora era un perdigiorno o un malvagio… Se qualcosa del genere accade una volta o due, può essere un caso; se accade dieci volte consecutive, si impone una riflessione, tant’è che ho finito per scrivere anche un pezzo sul tema, per “Linus”, partendo proprio da Addio fantasmi di Terranova, oltre che da La parte migliore di Raimo e La bambina ovunque di Sgambati. E io stesso, alla fine, pur partendo dall’idea di scrivere una grande storia di nostos, di ritorni a casa, di esplorazioni della contemporaneità alle più diverse latitudini, mi sono dovuto comunque confrontare con tale figura. La nostra è una “macrogenerazione” – parlo di quella nata fra i ’70 e i ’90 –che non ha avuto occasioni storiche per confrontarsi con la generazione precedente, come è accaduto ad esempio nel ’68 o, più brevemente, nel ’77, e certo non ne ha avuta alcuna per “uccidere il padre”, foss’anche solo simbolicameente. Questa “eclisse dei padri” – e la conseguente ricostruzione, o il suo superamento – trova oggi inevitabile voce nella narrativa.
12) In collaborazione con la rivista “L’indiscreto” hai ripristinato le classifiche di qualità per i libri. Da cosa nasce questo bisogno e quali sono state le evidenze più interessanti nella prima classifica?
L’idea nasce dalla mia esperienza tra i giurati delle prime classifiche, legate a Pordenonelegge, che esisterono tra il 2009 e il 2013. Le avevo sempre trovate uno strumento straordinario per scoprire nuovi libri e dare valore a quelle opere di qualità che non sarebbero mai entrate nelle classifiche di vendita, e mi era spiaciuto molto quando smisero di essere compilate.
Molti miei amici, lettori forti ma non appassionati al punto di seguire le varie riviste letterarie o i domenicali dei quotidiani, spesso mi chiamano o mi scrivono per avere un consiglio su un libro da acquistare – “Oh, sono in libreria, cosa compro?” – perchè la realtà dei fatti è che per il lettore, nell’odierno contesto editoriale e distributivo, fatto di continue infornate di novità e collane ormai snaturate, che possono includere alta letteratura come l’ultima delle “commercialate”, è molto difficile orientarsi. Occorre dunque più “funzione di indirizzo”. Per ritrovarla siamo partiti da un nocciolo duro anzitutto di critici, con cui ero entrato in contatto grazie a un’inchiestain quattro parti sempre realizzata per “L’Indiscreto”, e poi libraie e librai, giornalisti culturali, organizzatori e organizzatrici di rassegne, lettori forti, blogger. La prima edizione ha avuto decine di migliaia di letture e risultati molto interessanti. Se mi chiedi cosa mi abbia colpito di più, direi sicuramente – almeno per quanto riguarda la classifica di narrativa (si vota per narrativa, saggistica e poesia, NdR) – il terzo posto di un “recupero” come Il pantarèi di Ezio Sinigaglia, e il quarto posto di un altro recupero quale Ricrescite di Sergio Nelli, senza contare Gomòriadi Carlo H. De’ Medici, che per poco non è entrato in top-10. Un dato che conferma come questo mercato troppo veloce spesso non dia tempo a libri anche eccellenti di trovare i propri lettori: così il pubblico avveduto, più che inseguire le ultime novità, ha oggi voglia di riscoprire proposte che sono scomparse troppo velocemente dagli scaffali. Un altro dato interessante è che gli “ibridi”, per i quali nelle vecchie classifiche c’era una categoria specifica, sono davvero cresciuti. Certo, non avere la categoria “altre scritture” obbliga la giuria a dirimere ed effettuare posizionamenti di qua o di là, prosa o saggistica, ma resta il fatto che al primo posto fra i saggi si è piazzata Vanessa Roghi con Piccola città, che ha una forte narratività ed elementi di autofiction (e al secondo posto Vite brevi di tennisti eminentidi Matteo Codignola, esso pure un saggio con un approccio molto narrativo), mentre al primo posto nella narrativa c’è Trevi con Sogni e favole, che è sì un romanzo ma con decise note saggistiche. L’ibrido, dunque, non ha bisogno di nicchie: si fa spazio al punto di dominare le classifiche, a conferma della condivisibile frase di Gospodinov: “il romanzo non è ariano” – e forse non lo è nemmeno il saggio.
Intervista di Erika Pucci
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