“Io non temo il buio, anzi. Nel buio più profondo anche la paura procede a tentoni e io, invece, ho imparato a vederci. “
Apparentemente il rapporto conflittuale e crudele tra nonno e nipote, in un paese incapace di intervenire negli sconvolgimenti dei propri abitanti è al centro della narrazione lapidaria di Federico Tapparelli, vincitore con questo romanzo al Premio Calvino 2018.
Dopo un’ intensa introduzione, al culmine della trama primaria, con una suspance psicologica serrata, Tapparelli vira il percorso degli intrecci portando il lettore nell’ambito dell’approfondimento psicologico tra sensi di colpa, condanna, responsabilità.
Giona, il fragile adolescente protagonista, si scontra così con il nonno Alvise, despotico e intransigente, in un paese sperduta nella montagna. Il conflitto è spesso cruento, corporeo, sadico, occasione di violenza e di abuso, fino quando la ribellione del giovane prende il sopravvento.
Lentamente si apre così il processo della memoria, incentrata sulle figure genitoriali di Giona caratterizzate da assenza e violenza. Preamboli ben delineati e coinvolgenti che comunque non salvano dalla forte virata al capitolo 13 in cui dopo quindici anni, ritroviamo l’adolescente di allora ormai cresciuto e rinchiuso in un manicomio.
Il dialogo col terapeuta e l’introspezione sono carichi di umanità e al tempo stesso di ambivalenza. La cartella clinica di Luca, vero nome di Giona, è imperfetta, nell’accusa di omicidio qualcosa non torna. In questa dialettica l’autore regala così un finale a sorpresa su un doppio binario.
La capacità principale di Tapparelli è proprio quella di muoversi tra realtà, realtà parallela e realtà interiore, nell’intreccio delle quali cerca di definire quel passaggio spesso violento che è l’età adolescenziale.
Una scrittura densa che sa fare dell’angoscia trasmessa lo scalpello della trama e dell’approfondimento psicologico.
“Il paese respira con i tempi della pietra e non accetta il nuovo”