Incontriamo gli Elettronoir dopo la pubblicazione del loro nuovo lavoro discografico.
Il vostro prossimo album “Suzu” si prefigge un fine molto ambizioso: raccontare l’umanità ai tempi della disumanizzazione. Come avete cercato di tradurre questo tema nel vostro album?
Sappiamo che la scelta è ambiziosa.
Ma in realtà è questo tema che ci ha trovato, affascinato e sfidato.
Il concept dell’album originariamente era legato alla figura della Santa Muerte, la santa del credo latino americano che allevia le sofferenze ed esorcizza la morte, la fine. Contestualmente cominciarono ad assalirci immagini e storie provenienti dai luoghi in guerra del Medio Oriente, ed ogni espressione sembrava trovare una collocazione più appropriata dentro la cornice sonora che avevamo in mente. Abbiamo seguito quindi il nuovo filone per sviluppare le trame definitive. Hai visto la copertina del disco? Un uomo tiene in braccio un ragazzino ferito, morto. È la Pietà di Michelangelo in carne ed ossa, ad Aleppo, ora. La sua testa copre la lettera “I” di un fuoristrada ISUZU (marca Giapponese di auto e pick-up).
La disperazione incastonata in primo piano rispetto alla scritta SUZU, come fosse uno spot sbagliato, a contrasto con la disumanizzazione. Dovevamo a quel punto solo mettere insieme i pezzi e raccontarli.
A livello compositivo avete fatto una scelta netta, proponendo strutture musicali essenziali ma ben definite: quanto hanno influito artisti come B. Eno e E. Satie in questa scelta e perchè l’avete trovata congeniale per il vostro messaggio?
Dovevamo raccontare storie di personaggi anonimi mantenendone la dignità ed il contesto estremo in cui si muovono. È venuto fuori la colonna sonora di un “Far-West” ambientato nel Medio Oriente.
Naturale è stata quindi la scelta di alcuni linguaggi e generi: il Noise nella sua accezione più alta,
la musica ambientale (quella che inaugurò Satie nelle sale di attesa delle stazioni ferroviarie parigine), l’incedere incalzante della New Wave, l’elettronica che re-inventasse ritmi e sfumature per rendere l’immaginario di un disco il più fedele alla realtà.
Inutile dire che anche in questo lavoro ci siamo portati dietro gl’insegnamenti di Morricone. Ma ci siamo spinti molto oltre con l’ipnosi musicale propria di Eno ed i sottofondi rubati fra i rumori sperimentali e non di Cage. Musica d’avanguardia messa a loop in strutture proprie della nostra canzone e delle colonne sonore. Abbiamo armonizzato il conflitto per poterlo raccontare. Lo abbiamo ordinato per renderlo fruibile.
Campionare suoni di guerra, esplosioni, rumori di mezzi cingolati su strade polverose, per poi arpeggiarli, evolverli come suoni di synth per farli suonare aggressivi e scarni, ed arrivare a raccontare il sapore della polvere in bocca, fra macerie ed occhi lucidi, dove se schiudi troppo le labbra per rivendicare la tua presenza, esistenza, c’è rischio ti scappi facilmente la vita.
Quanto e come il vostro lavoro è stato influito dalle storie di profughi e guerre dal medioriente?
Precisiamo subito che non è un disco sul Medio Oriente, sulla crisi siriana, sulle guerre di petrolio e gas.
È un racconto che unisce delle figure cariche di umanità per raccontarne la forza, il pathos, per metterle a contrasto con i modelli vacui e ridicoli della vita occidentale, stili di vita che si nutrono di linfe altrui ma che grida all’odio se i reduci del saccheggio cercano riparo da chi li ha privati di tutto, sfidando l’impossibile fatto di torture e violenze, deserti e mare.
Ricordi il video su Repubblica.it della spiaggia vicino Pozzallo dove una “sciura” con il seno rifatto si faceva un video sulla spiaggia da postare su facebook, con l’iphone, in bikini, facendo le labbra a culo di gallina, e mostrando un mojito nell’altra mano? Cosa accadde? Che in lontananza arrivò una bagnarola con dei migranti, reduci da giorni in mare. Sembrava fossero arrivati come “conto” al vuoto esistenziale di una spiaggia italiana. Erano donne in cinta, bambini disidratati, ragazzi terrorizzati e sfiniti.
Bisogni reali contro l’eccesso del superfluo. Abbiamo fatto un disco che parla di questo. Il medio oriente è il giusto scenario, lo spunto più forte di questo periodo storico per raccontare cosa siamo diventati.
Quali sono i temi principali dell’album?
Riassumerei tutti i temi trattati sotto la scritta SUZU, l’immagine di cui ti parlavo, e farei trovarli a chi ascolterà il disco. Ci sono diverse sfumature che vanno scoperte. Ognuna delle 8 tracce del disco è anticipato da una citazione, o versi, di poeti ed intellettuali, e da una immagine/didascalia che introduce ed accompagna, di visione in visione, nel tessuto narrativo del disco.
In breve posso però accennare che abbiamo proposto Il pianista del campo profughi di Yarmouk che traina sul carretto della frutta dello zio il proprio pianoforte e suona fra le macerie: un Satie senza Parigi, musica ambientale in tutta la propria essenza contro le bombe e la devastazione (Divisione Satie);
il babbuino Said, che significa Felice, chiamato Happy dalla BBC, seduto in terra dentro la propria gabbia, dopo il bombardamento dello Zoo di Aleppo, dopo essersi ritrovato unico superstite di un evento che non riesce a codificare (Resonance);
le donne soldato YPG che combattono per una terra, un’identità, per i propri figli, a Kobane, ricordando che le proprie nonne acquistavano per corrispondenza minigonne e scarpe con i tacchi per andare all’università (Postalmarket);
la carneficina che evoca una nuova “Guernica”, dove il protagonista è Omran Daqneesh, il famoso “bimbo nell’ambulanza”, che stava guardando i suoi cartoni animati preferiti, sul divano con il fratellino ed il papà, e nel giro di pochi minuti viene ribaltato da un bomba su di un’ambulanza, sporco di terra e sangue.
Si guarda la mano, guarda i fotografi che lo immortalano, sente le sirene, è vivo, si pulisce la manina sporca sul sedile come si fa dopo aver giocato per strada con i propri compagni; la storia di Asia Ramazan Antar, che mentre combatteva, si esercitava, organizzava la resistenza insieme alle sue compagne, venne immortalata da uno scatto rubato, dentro la propria divisa polverosa.
L’unica cosa che l’occidente seppe dire davanti alla sua foto, l’unico pensiero che qui venne elaborato fu “guarda che bella la soldatessa Kurda, assomiglia ad Angiolina Jolie”… morì pochi mesi dopo durante un assalto dell’ISIS, ed era solo l’Angiolina Jolie kurda. E quello che ci resta è quella foto, simile alle cartoline delle dive, autografata da un sorriso senza rossetto, che nella condizione di guerriglia non poteva certo permettersi (La dedica). Il resto lo scoprirà chi vorrà ascoltare il disco e calarsi in queste trame.
I dettagli tecnici sulla strumentazione utilizzata nella registrazione sono opera di scelte ponderate e azzeccate: quali sono risultati i più vincenti in fase finale di produzione?
Lasciare tutto aperto. Dare sempre ulteriori possibilità di sviluppo, di evoluzione a tutti i suoni, e poi ai brani. Mettere sempre tutto in discussione fino al momento in cui indossi le cuffie, chiudi gli occhi, e ciò che prima era solo “la tua prossima canzone”, diventa vento e ti dona la leggerezza necessaria per arrivare “altrove”, lontano, oltre la tua immaginazione iniziale.
I synth, l’effettistisca, i microfoni, la post produzione, il mix ed il mastering sono state evoluzioni fuori controllo.Questo è importante perché ad oggi, dopo “n” ascolti, il disco ci emoziona ancora in modi sempre diversi.
Intervista di: Erika Pucci
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