Al cominciare di una calda estate, un tredicenne vive il suo primo amore. Ricorderà per sempre il primo bacio con la sua Claudia, ma a quel ricordo si accompagnerà la voce di nonno Rico, che per primo ha capito cosa stava succedendo quando le tegole hanno cominciato a tintinnare quella sera. “Nessuno di noi s’è fatto un graffio. Non nel corpo almeno, perché quella del cuore è un’altra storia”… Giordano non era uno di loro. Preferiva guardarli giocare a pallone e non partecipare alle partite. Non capiva nemmeno cosa si dicessero, loro che l’italiano lo usavano soltanto a scuola. Eppure è rimasto lì, Giordano, con loro, al paese, anche dopo il disastro che ha distrutto tutto, e si è sposato con una ragazza del posto. Ma mai ha voluto raccontare dove fosse quella sera terribile e come e perché sia sopravvissuto alla sua famiglia… “Nessuna innocenza ci assolve”, non basta essere stati soltanto dei bambini allora. “Il terremoto trasforma le chiese in trappole, le case in nidi sghembi e vuoti, i bambini in adulti precoci, la normalità in utopia”. E lascia segni profondi, anche in una terra abituata a invasioni e saccheggi, a resistere e a contare su se stessa per ricominciare ogni volta. Invece che piangere c’è da rifare tutto. “Di bessoi. Da soli”… Con gli occhi di bambino quella sera in cui tutto venne giù è possibile raccontarla come una favola, come la magia di un padre che con suo figlio ha condiviso un segreto prezioso. Un dono speciale per essere con lui, con tutto il suo amore di padre, per una sera. Ha soltanto soffiato troppo forte, dalla sua nave, dall’altra parte del mondo, al di sopra del mare. E così non è crollato soltanto il castello di carte che gli aveva detto di costruire proprio a quell’ora. Lui lo dirà ai suoi amici domani, che il papà non l’ha fatto apposta. È l’effetto che può fare un battito d’ali di farfalla, dall’altra parte del mare…\r\n6 maggio 1976. Una giornata tranquilla, stranamente calda per la stagione, volge al termine. Alle 21.03 un boato squarcia il buio della sera, una voce profonda, come “di un animale preistorico”, di un “Orcolàt” sale dal cuore della terra. Da quel momento in poi per la gente del Friuli niente sarà come prima, e il tempo sarà scandito da un prima e un dopo terremoto. In occasione del 40° anniversario di quell’evento disastroso che rase al suolo almeno quattro paesi, causò profonde ferite in tutta la regione e centinaia di vittime, e privò tantissimi della casa e di ogni bene costringendoli a mesi da sfollati, molte sono state le iniziative per ricordare non già il terremoto, ma per celebrare in qualche modo l’orgoglio di gente che, coerente col carattere schivo e privo di fronzoli e sentimentalismi che la contraddistingue per natura, non si fermò nemmeno un attimo a piangersi addosso ma, passato lo stupore e lo smarrimento, trasformò il dolore in azione, valutò le priorità con raziocinio (prima le fabbriche, poi le case, poi le chiese) e in poco tempo – considerati i danni – seppe ricominciare tutto di nuovo. Si seguì un modello di ricostruzione partito dal basso, dalla gente comune, talvolta in disaccordo con i poteri centrali, un modello che mai più è stato ripetibile e che allora trovò, per una volta, l’appoggio incondizionato della politica. Qual è la responsabilità oggi di essere “memorie viventi”, come dice uno degli autori di questa raccolta? Questo il senso de La notte che il Friuli andò giù, un coro di dieci voci profondamente diverse tra loro, poeti, giornalisti, scrittori, gente abituata ad usare le parole per raccontare e raccontarsi. Dieci voci diverse per cultura, professione ed età, cosa che, in una polifonia ben armonizzata, dona al risultato finale un pregio più grande. Ognuno di loro, chi in forma di cronaca, chi attraverso ricordi reali, chi trasfigurando in versi o in favola le sensazioni e le emozioni nate decenni prima, durante gli interminabili minuti del sisma o durante le esperienze che seguirono e rimaste indelebili da qualche parte in fondo all’anima anche per chi era soltanto un bambino, tutti loro, ognuno a suo modo prova a raccontare il “suo” terremoto. Quello che però emerge dalla interessante prefazione dell’antropologo Gian Paolo Gri, è il disagio che deriva dalla constatazione che “i valori della solidarietà non si ereditano, vanno continuamente reinventati; ogni generazione deve trovare motivazioni proprie”. E quindi ogni celebrazione, sembra dirci Gri, non deve prescindere dall’osservare che, alla luce delle necessità di accoglienza che viviamo oggi, poco pare essere rimasto di ciò che allora insegnò l’esperienza post terremoto. Ecco allora il suggerimento che “per restare in vita e mantenersi lievito fecondo e critico” la strada della memoria anziché passiva e ripetitiva debba trasformarsi “in oggetto di reinvenzione narrativa”. Perché resti così il senso vero della memoria. Questo è quello che cercano di fare i dieci autori di questa antologia, consigliata per capire un po’ meglio una pagina di storia del nostro Paese, e perché nelle orecchie ci restino le parole della donna alla quale il giornalista spietato chiede perché non pianga davanti alle rovine (“C’è poco da piangere qui, c’è da ricostruire”) e negli occhi lo sguardo meravigliato di un bambino davanti al soffio troppo forte che suo padre gli ha regalato dall’altra parte del mare, in una calda sera d’inizio estate. Per chi avesse voglia di aggiungere ancora un altro capitolo, a questo link è possibile vedere il documentario che accompagna la presentazione del volume https://www.youtube.com/watch?v=qCLE0NEvgyY&app=desktop\r\n\r\nLa notte che il Friuli andò giù\r\nRenzo Brollo, Pericle Camuffo, Pierluigi Di Piazza, Gian Paolo Gri, Maurizio Mattiuzza, Paolo Madeossi, Giada Messetti, Silvia Sacher, Antonella Sbuelz, Renzo Stefanutti\r\nRacconti\r\nBottega Errante\r\n2016\r\nArticolo di: Alessandra Farinola