Da poco in libreria il nuovo libro di Federico Pagliai Storie di Stinchi… e contorni Pendragon Edizioni, una delicata raccolta di racconti che hanno tutta la poesia di cui abbiamo oggi più che mai bisogno.\r\n\r\nL’abbiamo incontrato ed ecco cosa ci ha raccontato…\r\n\r\nNelle tue storie si racconta tempo che sembra scorrere più lentamente… E’ una delle tante magie della montagna? \r\n\r\nCredo di si. Non ho mai amato prendere in prestito frasi altrui ma per darti una risposta stavolta faccio uno strappo alla regola e cito un pensiero di Evaldo Cacelli, scrittore e per decenni medico condotto delle genti di quassù. Egli era solito affermare che “ In montagna si va piano, si campa di meno ma si vive di più”. Non è forse una bella frase con questo suo coniugare lentezza e intensità? Concetti di montagna e quindi dei libri che scrivo, credo!\r\n\r\n \r\n\r\nOggi c’è un attenzione fin troppo eccessiva su tutto quello che gira attorno al cibo… Come se fosse tornato di moda. Come mai secondo te? \r\n\r\nConcordo alla grande sull’aggettivo “eccessivo”. Con tutta questa spettacolarizzazione il cibo sta subendo una trasformazione concettuale esasperata: è passato da alimento per nutrirsi a elemento da esibire. Accendi la tv e ti trovi assediato da cuochi fighetti, sclerati, vocianti e narcisi che riducono il mangiare a prostituzione della materia prima. E poi quanti miti! Un tempo, la moda interessava per lo più il vestiario, oggi il bisogno di creare dei miti, e quindi dei testimonial del consumismo e delle convenzioni, coinvolge anche il cibo. Ti porto qualche esempio: anni fa un ristorante che non ti propinava una pietanza “ su un fondo di rucola” era fuori moda; adesso è il periodo della crema di aceto balsamico e allora giù con tutte queste portate con pittoreschi disegni e riccioli di quella crema! Per non parlare del vino! Ad Aprile ero a Vinitaly: gran bella manifestazione ma mi pareva di essere in gioielleria!\r\n\r\nAbbiamo bisogno , o meglio ci convincono di averne bisogno, di miti. Giocano sulle nostre debolezze e coglionerie. Ora è il momento del cibo e dei cuochi vippetti: l’esatto contrario del protagonista di questo mio ultimo libro, di quello Stinchi che Dario Cecchini, macellaio storico di Panzano in Chianti e firmatario della prefazione al testo, non a caso ha definito “ semplice e ruspante!”\r\n\r\n \r\n\r\nCosa si può imparare dalla montagna, dai suoi saperi?\r\n\r\nTanto. E niente. Dipende da come uno si approccia a quel contesto. Volendo restare nell’argomento cibo, credo che il primo passo per “imparare” qualcosa sia quello di mettere via quanto imparato prima di stare quassù. Mi spiego meglio… Che la montagna sia di insegnamento per tante facoltà umane non lo scopro certo io. Quassù, se ben predisposti, siamo tutti scolari ma affinché uno impari qualcosa si deve liberare di preconcetti e pregiudizi. E’ regola universale, vale anche per il cibo. Per apprezzarlo occorrono due passaggi: avere la fame di chi ha consumato camminando per ore e liberarsi mentalmente dai luoghi comuni che ci inducono a vedere il cibo di monte in un’ ottica bucolica dove le caprette ti fanno ciao oppure come elemento addirittura elitario come accade per i prodotti biologici. Dimenticarsi di quanto imparato prima significa anche leggere e capire la montagna, la sua essenzialità e sobrietà: ho visto gente arrivare al Rifugio del Lago Scaffaiolo e chiedere se lì avevano da servire la salsa cocktail e gamberetti… Lascio a te ogni considerazione…\r\n\r\n \r\n\r\nQuando hai deciso di raccontare le “ Storie di Stinchi e contorni”? Quando hai capito che di quella parte della tua vita volevi fare narrazione?\r\n\r\nNon mi prendere per citrullo o fenomeno se ti rispondo che, quando scrivo, non sono io a decidere. Comanda la scrittura, questa Dea femmina che ti accantona il cervello, ti fa impugnare la biro e, sotto dettatura, riempie pagine. E’ successo così per gli altri sei libri e ancora con le “ Storie di Stinchi”. Ero gravido di quel libro, sentivo che avevo da scriverlo e poi, forse, pubblicarlo che non tutto mando alle stampe, non mi interessa. Questo per dirti che non ho una data di inizio di stesura, avevo solo uno stato d’animo e il bisogno di adoperare( gran brutto termine, lo so…) il cibo come elemento che mi consentisse di tracciare un profilo identitario della montagna e delle sue genti. Credo, insomma, che tramite il cibo si possa, ancora e non so per quanto, dar voce alle piccole identità locali e al localismo. E anche raccontare la montagna!\r\n\r\nDi sicuro, nonostante la mia gravidanza letteraria, questo libro non sarebbe mai uscito se non ci fosse stato la levatrice “ Stinchi” a farlo nascere. E’ lui l’esperto, la spina dorsale di certi racconti, l’amico con il quale mi sono scambiato, sotto forma di piccoli foglietti che parevano i pizzini di provenzana memoria, i piccoli aneddoti che poi ho solo romanzato.\r\n\r\nRiguardo alla seconda domanda… Credo aver deciso di farne narrazione e renderlo libro pubblicabile solo quando ho inteso che i racconti creavano condivisione di vissuti e generazioni, quando il “ mio” diventava un “ nostro”. A che serve, diversamente, un libro?\r\n\r\n \r\n\r\nCosa significa per te raccontare?\r\n\r\nIngannare la solitudine. Contornarsi dei personaggi nati dalla fantasia, ma anche dalla realtà, e farli parlare come fossero compagni di un viaggio in cui quello che conta è percorrere una tratta di vita assieme.\r\n\r\n \r\n\r\nCos’è rimasto fuori da questo libro?\r\n\r\nAbbastanza! Vedi Elena, esiste un bel sentimento: l’ ironia. Il problema è che mal distribuita: c’è chi ne ha in abbondanza e chi zero. Questo è anche un libro di zingarate, di goliardie e ironie, appunto. Avevo da racconti da codice penale, ma li estromessi dagli altri. Ho deciso di non pubblicarli perché chi scrive ha anche una responsabilità verso chi legge. Ho avuto timore che a qualcuno saltasse in mente di imitare certi comportamenti. E non me la sono sentita di correre questo rischio, ecco.\r\n\r\nPerò… sento che presto correrò il rischio!!!!!\r\n\r\n \r\n\r\nTu che vivi a stretto contatto con la natura cosa pensi che dobbiamo necessariamente recuperare?\r\n\r\nBeh…domandona! Avrei la tentazione di dilungarmi ma evito e ti rispondo che la prima cosa di cui riappropriarsi sia la naturalità! Siamo diventati estranei alla natura, ci siamo allontanati da essa al punto di averne paura, di sentirla come un’ insidia, un covo di diffidenze.\r\n\r\nTi porto solo un’ esempio: quassù sono tornati i lupi. Hanno da esserci, sono animali da bosco e crinali. Eppure, per una gallina sventrata, un latrato di un cane randagio, un cesto di rovi che si muove…si urla subito al lupo! Da Cappuccetto Rosso in poi è stato tutto un istigare paure nei confronti di quella bestia: se fosse veramente feroce non esisterebbe giorno senza la cronaca di un attacco all’ uomo, evento, questo, che non si ripete dal 1879! Nonostante ciò domina la paura, quella subdola che nasce dalla non conoscenza, la peggiore. Si, la peggiore. Perché quando l’ uomo non conosce più e prova paura o scappa o stermina.\r\n\r\nE quello che non si conosce più è proprio la naturalità. Un fatto inammissibile se poi uno vive in montagna. Ma forse solo, come al solito, un maledetto idealista…\r\n\r\n \r\n\r\nIntervista di: Elena Torre