Roma, Lunedì 4 luglio 2016, ore 21\r\n\r\n \r\n\r\nTi racconto una donna\r\n\r\n \r\n\r\nCATERINA BONVICINI, TERESA CIABATTI, VALERIA PARRELLA, SIMONA VINCI, CONCITA DE GREGORIO\r\n\r\n \r\n\r\nLeggono alcuni racconti della grande scrittrice americana\r\n\r\nLUCIA BERLIN\r\n\r\nLA DONNA CHE SCRIVEVA RACCONTI\r\n\r\n \r\n\r\n“Ho sempre creduto che tutti i migliori scrittori sarebbero arrivati – presto o tardi – là in cima, emergendo come panna sull’apice di una torta; diventando noti, amati, citati, insegnati, antologizzati, riconosciuti e trasposti dal cinema, dal teatro dalla musica in altre narrazioni”. Non era ancora accaduto al lavoro di Lucia Berlin, che ora la critica accosta a Raymond Carver, Grace Paley, Alice Munro, William Carlos Williams e Don Delillo… Questo augurio di Lydia Davis è diventato realtà grazie a questa raccolta di 43 racconti che ne celebra infine il talento, e che ripropone più della metà di tutta la sua produzione.\r\n\r\n \r\n\r\nLucia Berlin basò molti dei suoi racconti su fatti reali della sua vita. “Mia madre scrisse sempre storie vere, anche se non necessariamente autobiografiche”, dichiarò uno dei suoi figli, alla sua morte. Interprete d’eccezione di un genere spesso definito “auto-fiction” o self-fiction”, ha continuamente rimodellato e reinventato la sua storia personale e famigliare dentro il suo universo narrativo. Lei stessa definisce la sua narrativa “una trasformazione, non una distorsione della realtà”. Una delle sue voci narranti afferma “Ingigantisco le cose, e mescolo realtà e finzione, ma non mento mai”, frase che illumina la natura del suo racconto e può essere accolta come una dichiarazione implicita di poetica. La sua vita è stata ricca e piena di avvenimenti e il materiale che vi ha attinto per i suoi racconti estremamente variegato, potente, drammatico. Una donna molto bella che ha avuto una vita difficile e la racconta in tanti piccoli, o meno piccoli, «quadri». Una donna con quattro figli da allevare da sola, che scrive della quotidianità difficile dei lavori che deve fare per mantenerli: la donna delle pulizie, l’infermiera, l’impiegata in ospedale, l’insegnante precaria. Ha vissuto così tante esistenze Lucia Berlin nei suoi 68 anni di vita e ha attraversato così tante esperienze da incarnare una realtà umana familiare a tutti noi. Una vita più che difficile, tormentata dalla scoliosi e dalle sue conseguenze, da matrimoni sfortunati, dalla povertà, e dai lavori tipici degli americani senza radici: ma le esperienze di centralinista, domestica, insegnante precaria o infermiera, e di madre single, forniscono all’autrice un materiale prezioso e vastissimo, che usa per raccontare se stessa con eccentrico, personalissimo talento. E per raccontare il mondo del lavoro nel “sottobosco” degli impieghi umili, malpagati, socialmente invisibili, manifestando un’acuta sensibilità nei confronti della stratificazione sociale e delle sue discriminazioni. I suoi racconti sfiorano temi come quello della brutalità da parte di alcune forze di polizia, del razzismo, delle pastoie del sistema sanitario americano che ancora oggi attirano l’attenzione dell’informazione e dell’opinione pubblica. Ma la sua narrativa, mai “di denuncia” e scevra da ogni sentimentalismo, si dispiega nel registro sommesso di un intima confessione e la sua lingua è stilisticamente così “compressa” da poter essere definita “Flash Fiction”.\r\n\r\nProtagonista la narratrice onnisciente, e vari personaggi, secondari ma non poi tanto, diversissimi tra loro: un vecchio indiano americano incontrato in una lavanderia; una ragazza giovanissima che scappa da una clinica messicana di aborti per ricche americane; la suora di una scuola cattolica, mai dimenticata; un’insegnante che lascia un segno positivo nell’evoluzione di una ragazzina. Ma soprattutto, una domestica che tratteggia, lapidaria ma benevola, le «signore» (e anche qualche «signore») per cui lavora. Tanti personaggi di Berlin ricorrono in diversi racconti e vengono ritratti da diverse angolazioni e in diversi ruoli, dando alla raccolta un’evidente coerenza e unità tematica, tutti diversissimi, variegati per sesso, razza, colore e censo; scrive anche dell’America Latina dove ha vissuto e, sottotraccia, delle “interferenze” della politica americana in quella regione nella metà del ‘900. Ma di certo il tratto pittorico dell’autrice – reso in uno stile essenziale, minimalista – contribuisce a fissarli nella mente, insieme a una scrittura ingannevolmente semplice, chiara, essenziale, imprevedibile come la musica jazz e altrettanto ipnotica. Il setting ordinario delle sue storie (una lavanderia, uno studio dentistico, un ospedale…) le servono come scenario e “reagente” alla rivelazione della natura e del cuore umano e l’hanno fatta accostare a Raymond Carver, a Bobby Ann Mason e più in generale all’estetica del “Dirty Realism” degni anni ’80.\r\n\r\nLe pubblicazioni delle sue raccolte di racconti rimasero a lungo confinate nel mondo della piccola e media editoria (Turtle Island e Poltroon), anche se con il volume di racconti “Homesick” vinse l’American Book Award nel 1991 e il valore del suo lavoro venne riconosciuto e sostenuto da scrittori come Lydia Davis e Saul Bellow, che ospitò nella sua rivista The Noble Savage il suo racconto d’esordio. Nonostante questi importanti riconoscimenti non raggiunse mai in vita presso la critica e il grande pubblico la notorietà e il successo che avrebbe meritato. Fu Paul Metcalf a definire la scrittura della Berlin – in una recensione alla sua raccolta di racconti “Safe and Sound” – “il segreto meglio custodito d’America”. Oggi viene considerata una protagonista indiscussa della narrativa americana del ‘900, non più un outsider ma una voce centrale nel panorama letterario, crocevia nel variegato mondo della più prestigiosa literary influence.\r\n\r\n \r\n\r\nLucia Berlin nacque in Alaska nel 1936. Il padre lavorava nel settore minerario, così Lucia trascorse i suoi primi anni di vita tra cittadine e insediamenti minerari in Idaho, Montana e Washington. Nel 1941 il padre andò in guerra, e la madre portò Lucia e la sorella minore a El Paso, dove il nonno era un dentista eminente ma alcolizzato. Poco dopo la guerra, il padre trasferì la famiglia a Santiago, in Cile, e Lucia inaugurò quelli che sarebbero stati venticinque anni di vita piuttosto fastosi. A Santiago partecipò a balli e serate di gala, si fece accendere la prima sigaretta dal principe Ali Khan, terminò la scuola, e vestì i panni della padrona di casa agli eventi mondani del padre. Quasi ogni sera, la madre si ritirava presto con una bottiglia. A dieci anni le fu diagnosticata la scoliosi, una dolorosa condizione della colonna vertebrale che l’avrebbe accompagnata per tutta la vita, rendendo spesso necessario un busto d’acciaio. Nel 1955 si iscrisse alla University of New Mexico. Parlando ormai correntemente lo spagnolo, studiò con il romanziere Ramón Sender. In breve tempo si sposò ed ebbe due fi gli maschi. Alla nascita del secondo, il marito scultore se n’era già andato. Lucia conseguì la laurea e, sempre ad Albuquerque, conobbe il poeta Edward Dorn, una figura chiave nella sua vita. Conobbe anche un docente di Dorn al Black Mountain College, lo scrittore Robert Creeley, e due suoi compagni di Harvard, i musicisti jazz Race Newton e Buddy Berlin. E cominciò a scrivere. Sposò Newton, un pianista, nel 1958. (I suoi primi racconti erano firmati Lucia Newton.) L’anno successivo si trasferirono insieme ai fi gli a New York, in una mansarda. Race lavorava sodo, e la coppia fece amicizia con i vicini, Denise Levertov e Mitchell Goodman, e con altri poeti e artisti tra cui John Altoon, Diane di Prima e Amiri Baraka (all’epoca LeRoi Jones). Nel 1960, Lucia e i fi gli lasciarono Newton e New York e raggiunsero il Messico insieme all’amico Buddy Berlin, che diventò il suo terzo marito. Buddy era carismatico e benestante, ma si rivelò anche un tossicomane. Tra il 1961 e il 1968 nacquero altri due figli. Nel 1968 i Berlin erano già divorziati e Lucia stava seguendo un corso di specializzazione alla University of New Mexico. Lavorava anche come supplente. Non si risposò mai. Trascorse il periodo tra il 1971 e il 1994 a Berkeley e Oakland, in California. Lavorò come insegnante di liceo, donna delle pulizie, centralinista, assistente di un medico e infermiera, al contempo scrivendo, crescendo i quattro figli, bevendo e sconfiggendo infine l’alcolismo. Passò gran parte del 1991 e del 1992 a Città del Messico, dove la sorella stava morendo di cancro. La madre era morta nel 1986, probabilmente suicida. Nel 1994 Edward Dorn la portò alla University of Colorado, e Lucia trascorse i sei anni successivi a Boulder come scrittrice ospite e poi come professoressa associata. Diventò un’insegnante decisamente popolare e amata, e già al secondo anno vinse il premio riservato ai migliori docenti dell’università. Lucia trascorse anni fiorenti a Boulder, in una comunità ristretta che comprendeva Dorn e la moglie Jennie, Anselm Hollo, e la vecchia amica Bobbie Louise Hawkins. Anche il poeta Kenward Elmslie e il prosatore Stephen Emerson diventarono suoi grandi amici. I problemi di salute (la scoliosi aveva causato la perforazione di un polmone, e a metà degli anni Novanta non poteva più stare senza una bombola di ossigeno) la costrinsero a ritirarsi nel 2000, e l’anno seguente si trasferì a Los Angeles su insistenza dei figli, molti dei quali vivevano lì. Combatté e sconfisse il cancro, ma morì nel 2004 a Marina del Rey.\r\n\r\nFonte: Elena Cassarotto