Ospedale San Giovanni Calibita, Fatebenefratelli. Interno giorno di un sabato di inizio luglio.\r\n\r\nIl cuore dell’Isola Tiberina pulsa.\r\n\r\nIl battito del Rione Ripa accelera.\r\n\r\nPatrick si avvicina alla finestra del terzo piano Reparto Neurologia e sembra parlare con quei due pezzi\r\n\r\ndi vetro affacciati su un cielo di piombo.\r\n\r\nLa testa fa un male assurdo, il cervello trasmette un impulso che anticipa un’idea.\r\n\r\nAprila.\r\n\r\nLui ripete tre volte il concetto proveniente da lontano ma accetta il consiglio senza farsi pregare.\r\n\r\nInquadra la finestra e la studia. In un gesto vietato, in un sogno proibito.\r\n\r\nA pretendere un posto in prima fila per accettare i mali del mondo e non dover chiedere il permesso a nessuno. Solo decidere, scegliere, afferrare.\r\n\r\nLa finestra si spalanca in faccia a una città stanca. I versi dei gabbiani si fanno insistenti, quasi laceranti nella quiete della stanza numero dodici barra b. Patrick osserva.\r\n\r\nGabbiani acrobati si staccano dai tetti e precipitano verso l’asfalto, accelerando all’impazzata come se volessero davvero sbatterci il grugno.\r\n\r\nGabbiani giocolieri cambiano posizione per studiare nervosi contrattempi.\r\n\r\nVersi simili a risate a prendere in giro il tempo che li possiede, protagonisti assoluti di una giornata maledetta.\r\n\r\nSguardi che abbracciano lo spazio intorno senza escludere dettagli e trasparenze.E poi quel sangue. Limpido. Improvviso.Eterno.\r\n\r\nPatrick si sporge dalla finestra per vedere meglio e non perdere nemmeno un attimo quel riflesso libero.\r\n\r\nIl becco di un gabbiano assassino strazia e divora un volatile indifeso capitato per caso dentro lo stesso ingombrante disegno.\r\n\r\nIl gabbiano è cieco per colpa di una zuffa del passato o di un improvviso cambio di traiettoria del suo volo candido. Ma la carne la trova lo stesso. E anche il sangue scorre lo stesso. L’uomo osserva. La testa ronza. Pensieri accavallati, i resti di una vita che non è la sua, fotografie perdute. La testa impreca. Luci intermittenti, sillabe confuse, frammenti. La testa perde colpi. Bisogno di intercettare il tassello mancante a ricomporre le ultime vicende. Lui non ricorda come è finito in ospedale, da quanto tempo è bloccato nella stanza che puzza di disinfettante e promesse non mantenute. Ma percepisce in un angolo della memoria una scritta rossa su fondo bianco.\r\n\r\nOspedale San Giovanni Calibita, Fatebenefratelli. Il cuore dell’Isola Tiberina gronda.Il battito del Rione Ripa rallenta. E all’improvviso Patrick ricorda. Ricorda il suo sangue e quello degli altri. Il suo delirio e quello degli altri. La sua vita e la morte degli altri. Clic, uccidere. Lui si veste e lancia nella stanza uno sguardo e un addio. La mano scorre sul pulsante dell’ascensore, testa bassa e mosse veloci. Terzo piano.\r\n\r\nDa qualche parte, in maniera dignitosa ma non troppo, qualcuno piange senza lacrime. Le lacrime sono terminate e le speranze pure. Secondo piano. L’ospedale sembra deserto, ma è solo una perfetta finzione cinematografica. La stessa che tra qualche ora vomiterà un fiume di gente tra flebo e preghiere. Primo piano. Due suore procedono lente snocciolando rosari e perdoni. Piano terra. Patrick pare un visitatore solitario, di quelli che prima acquistano una scatola di cioccolatini o un pensiero qualsiasi e poi rinnegano il tempo perso e quello che resta da respirare.\r\n\r\nLa sua figura decisa percorre il cortile interno dell’ospedale, prosegue lungo un corridoio muto e scompare attraverso un portone di legno antico.\r\n\r\nAll’interno del civico numero trentanove di Piazza di San Bartolomeo all’Isola si scioglie il dolore per un funerale lento, fuori la gente festeggia una farsa senza nome.\r\n\r\nAnonimo cadavere per anonimi spettatori. L’uomo percorre pochi metri, le vie di fuga non sono molte. Via di Ponte Quattro Capi con il suo Ponte Fabricio che si affaccia a strapiombo su acque melmose, più avanti lungo la strada Ponte Palatino che non conduce in nessun luogo particolare. Squarci di Roma controllati a vista da lampioni con lo stemma SPQR e lucchetti abbandonati insieme a iniziali stinte.\r\n\r\nPatrick attraversa la strada e si infila di nascosto dentro un bar. L’aroma del caffè lo intriga e lui accetta di far scendere nello stomaco un sapore invitante.\r\n\r\nLo sguardo si lascia catturare da poster scoloriti e bottiglie di liquore che disegnano una parete arancione. Le mani afferrano una bustina di zucchero da un contenitore con la pubblicità di un film da quattro soldi.\r\n\r\nIn un secondo la memoria torna a galla. Ricordo tremolante di ricerche al computer, interrotte da raggi di sole scaraventati sulla tastiera. Ricordo del bambino che era e dell’uomo che è diventato. Ricordo del suo passatempo preferito. Clic, uccidere. Zucchero e formiche che passeggiano tra la nebbia della mente. Tracciano intrigo e disgusto. Galleggiano su una superficie increspata che dondola ma non commuove. Roma ride a crepapelle. Povera turista costretta all’esilio, che di giorno accetta proposte indecenti come una donna di facili costumi e di notte resta immobile per assorbire luci e confusione. Atteggiamento cortese di chi ha deciso di farsi i cazzi suoi, quando sarebbe il caso di metterci un punto.\r\n\r\nPatrick osserva l’orologio da bancarella che scivola curioso oltre il polsino della camicia. Se non fosse per l’odio che gli brucia dentro, potrebbe considerarlo un gesto di elegante anticipo di chissà quale altro lusso.\r\n\r\nDa potersi concedere per accettare un sonno incompreso. Da voler assaggiare dopo un caffè annacquato.\r\n\r\nDall’altra parte della strada la gigantografia di un intimo di donna lo osserva ammiccante, a voler dire che sono trascorsi trentasei giorni dall’ultima volta che ha ucciso.\r\n\r\nTrentasei giorni da quando lo sguardo si è fissato negli occhi della vittima, a lasciar intendere che la vita stava per traslocare per sempre.\r\n\r\nTrentasei giorni da quando una busta di plastica per surgelati contenente cristalli di zucchero e formiche senza testa è precipitata al centro di una pozza di sangue innocente.Trentasei giorni. E una manciata di maledetti minuti. Patrick non si trova in questa città per caso.\r\n\r\nQualche tempo fa Roma lo ha adottato accogliendolo tra le braccia. Spalancando portoni e buoni propositi per raccogliere la follia e presentare il conto senza chiedere nulla in cambio. Dopo aver udito voci e cantilene, mescolandole con un attimo di ridicola euforia.\r\n\r\nScenario scartavetrato su un finale malinconico che in certe giornate si digerisce in fretta. Qualcosa di incompreso che introduce una stagione ingombrante e si affanna a interpretare i titoli di coda.\r\n\r\nLe scritte non si fanno attendere.