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Roma è una strana città. È eccessiva, ma generosa, accoglie il nuovo arrivato, ma non gli chiede eterna fedeltà. Non le interessa che i «forestieri» sposino le sue antiche tradizioni, e loro raramente ne assorbono i vezzi, il dialetto, lo spirito: il più delle volte, a Roma il siciliano resta siciliano, il napoletano napoletano e – soprattutto – il milanese milanese. Eppure il Monnezza, personaggio simbolo della romanità al cinema, l’ha inventato un cubano scappato da L’Avana, passato per l’Actors Studio di New York (dove si esercitava al fianco di Marilyn Monroe e Marlon Brando) e sbarcato in Italia quasi per caso. Tomas Milian non ha bisogno di presentazioni: oltre cinquant’anni di carriera cinematografica, un’impressionante capacità di reinventarsi in ruoli sempre diversi, una lunga serie di successi al botteghino e una vasta schiera di appassionati che intorno a lui ha creato un vero e proprio fenomeno di culto. Ma se del Monnezza si sa tutto (o quasi), dell’uomo dietro alla maschera si sa ben poco. In queste pagine Milian racconta per la prima volta la sua infanzia cubana, il trauma di un bambino che assiste al suicidio del padre, la giovinezza da playboy nella Cuba bene, la scoperta del cinema, la fuga negli Usa, la difficile vita da «uomo da marciapiede» a New York, l’arrivo in Italia e tutto quell’incontrollabile flusso di eventi che ha portato un giovane attore senza radici a lasciar perdere il suo sogno.
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