Claudio Sottocornola, storico e filosofo del pop, risponde alle nostre domande sul passato e sul presente del Festival di Sanremo…
\r\n \r\n\r\nCome il Festival di Sanremo è cambiato negli ultimi anni?\r\n\r\nIl Festival è la cartina di tornasole della società che lo celebra, oggi senz’altro più cinica, smaliziata e consumistica che negli anni ’60 o ’70. La musica è ormai un fenomeno di consumo spicciolo, si scarica dalla Rete, si ascolta distrattamente in macchina o mentre facciamo footing, non ci affezioniamo più ai cantanti e siamo presi da modelli più algidi e distanti, legati al mondo della moda, della pubblicità, di uno sport sempre più patinato o di una televisione aggressiva ed edonistica. Sono assai lontani i tempi dei Festival anni ’60, non solo Sanremo, ma anche il Cantagiro, per esempio, una carovana itinerante per l’Italia, che vedeva la gente di ogni età assiepata ai bordi delle strade dell’intera penisola, per salutare i divi al loro passaggio… Oltretutto la proposta musicale è oggi così varia ed ellittica che, nella difficoltà a rintracciare un comune sentire anche musicale, il cast del Festival dipende da chi lo organizza molto più che dal gusto e dalla volontà popolare.\r\n\r\nIn che modo è diventato un fenomeno di costume e quanto incide sulla scena musicale italiana?\r\n\r\nIl Festival, dagli anni ’50 agli anni ’80, ha contribuito a plasmare l’identità nazionale e a orientare costume e società. Oggi, totalmente assimilato al mezzo televisivo, che a sua volta è connesso all’inserzionismo pubblicitario e a fenomeni di auditel e di share, ha più a che vedere con i linguaggi dei media e della comunicazione nonché del consumo di massa, ma è diminuita in modo esponenziale la sua rilevanza in ambito musicale, la sua capacità di generare mode e creare personaggi. In questo sono molto più efficaci i talent show di successo con tutta la loro carica adrenalinica e il gossip che sono in grado di suscitare. Personaggi come Marco Mengoni, Noemi, Alessandra Amoroso, Emma Marrone sono più rivelativi, nel bene e nel male, della direzione verso cui è incamminata la cultura popular contemporanea, ormai dipendente dal mezzo televisivo e dalla Rete, più che dalla canzone pop, rock e d’autore in sé. E’ davvero tutta un’altra musica!\r\n\r\nQuali i motivi della sua longevità?\r\n\r\nIl Festival appartiene al mythos fondativo dell’identità nazionale italiana, che ha contribuito a creare, insieme al fenomeno televisivo. Quando, negli anni ’50, l’Italia doveva fasciarsi le ferite della guerra e ritrovare speranza verso il futuro, Sanremo divenne il luogo del sogno, della formazione di una coscienza nazionale, che passava anche attraverso la lingua un po’ aulica e goffa di canzoni come “Vola colomba”, “Buongiorno tristezza”, “Viale d’autunno”, mentre negli anni ’60 esplose l’onda lunga del boom economico e il Festival celebrò i suoi splendori, da Modugno a Mina, da Louis Armstrong a Wilson Pickett, da Gabriella Ferri a Lucio Battisti… Dopo la crisi degli anni ’70, quando la canzone d’autore divorziò dal Festival, gli anni ’80 ne segnano la rinascita, e lanciano personaggi come Ramazzotti e Vasco, la Mannoia e Zucchero, mentre si riaffacciano interpreti internazionali come Ray Charles ed Elton John. Anche se poi il Festival cessa di essere un Festival della canzone, per diventare uno spettacolo, un contenitore televisivo, dove il look, gli effetti speciali e le trovate pubblicitarie contano più della musica. Ma ogni anno cerchiamo di tornare al nostro mythos fondativo, un luogo dell’origine che per definizione è ineguagliabile e non più raggiungibile. I tempi sono mutati, non ci sono più valori aggreganti condivisi, e non c’è più, di conseguenza, una colonna sonora da ascoltare insieme.\r\n\r\nLa manifestazione è ancora rappresentativa del panorama musicale attuale?\r\n\r\nIl problema è che ormai è difficile identificare una tendenza musicale rilevante e condivisa. Da un lato c’è una “tribalizzazione” delle esperienze musicali, specie giovanili, ove ciascuno si ritaglia il suo spazio e il suo linguaggio: dall’heavy metal al rap, dall’hard rock alla world music, c’è ormai, anche grazie alla Rete, un cercarsi fra linguaggi affini, che tende ad escludere la comunicazione con ciò che è “diverso”. Dall’altro, il mercato propone una omologazione nel nome del pop che orienta il gusto comune ad una musica di facile ascolto ed essenzialmente finalizzata al consumo. Sanremo diventa quindi una “terra di nessuno”, che dovrebbe coltivare la memoria musicale nazionale e riconoscere il nuovo ma che, in effetti, obbedisce a logiche prevalentemente televisive e vi subordina la canzone, perdendo spessore e consistenza dal punto di vista strettamente musicale, e semmai agendo in sinergia con i grandi interessi di mercato o scuderia.\r\n\r\nTogliendo i vincoli di spazio e tempo quali artisti vorrebbe vedere in gara sul palco dell’Ariston?\r\n\r\nCredo che il Festival di Sanremo dovrebbe assomigliare ai Festival del cinema di Cannes o Venezia, e proporre passerelle, serate d’onore e monografie dedicate ai grandi della canzone italiana, con qualche ospite straniero davvero outstanding, che reinterpreti evergreen italiani o internazionali. Mi piacerebbe vedere approfondimenti sulle grandi interpreti italiane, da Patty Pravo a Rita Pavone, da Milva a Loredana Bertè, da Gianna Nannini a Carmen Consoli. E poi gli autori, da Paoli a Guccini, da De Gregori a Venditti, da Vasco e Jovanotti a Ligabue. Sarebbe bellissimo assistere a serate speciali, dedicate magari agli anni ’60, e ritrovare interpreti cult dell’epoca, come Louiselle, Annarita Spinaci, Anna Identici o Riccardo del Turco, o agli anni ’80, con Scialpi e la Rettore, e poi vedere le grandi star internazionali tornare sul palco, come nei mitici 60’s, a cantare anche in italiano, piuttosto che promuovere il loro nuovo cd: Shirley Bassey, Charles Aznavour, Johnny Hallyday, Anastacia, Michael Bublé… Ma ci vedo bene, oggi, anche i presenti Marco Mengoni, Malika Ayane e Raphael Gualazzi. Per le canzoni in gara, invece, eviterei inviti ed entrature predefinite: bandirei un grande concorso nazionale e nominerei una commissione in grado di ascoltare tutti i pezzi inviati da chicchessia, selezionando poi i cantanti più idonei a interpretarli… In pratica, un sogno che non si realizzerà mai.\r\n\r\nQuanto Sanremo è entrato nel suo lavoro Working Class, da poco uscito?\r\n\r\nWorking Class è un cofanetto in cinque dvd che raccoglie lezioni-concerto che ho tenuto sul territorio dal 2004 al 2012, cinque percorsi diffusi anche in Rete a partire dal mio sito www.claudiosottocornola-claude.com . L’idea è stata quella di associare la canzone pop, rock e d’autore italiana alla ricostruzione della Storia sociale e del costume del Secondo Novecento: si tratta quindi di live, ove reinterpreto dal vivo canzoni simbolo particolarmente significative e ne spiego la genesi, il contesto, il significato. Come docente di Filosofia e Storia e come giornalista, ritengo che la vera Storia sia quella del quotidiano, della gente comune, ma anche delle forme espressive, artistiche, musicali – e culturali in genere – che accompagnano il nostro vivere. Amo quindi la cultura popular e la canzone che ne è la massima espressione. Nei cinque percorsi (Teen-agers di ieri e di oggi, Decenni, Anni ’60, Cantautori, Immagine della donna e canzone) reinterpreto e spiego circa novanta brani rilevanti per la nostra evoluzione musicale, e di questi una ventina sono sanremesi. Ho scelto due splendidi brani interpretati da Patty Pravo, E dimmi che non vuoi morire e Pigramente signora, due di Modugno, Nel blu dipinto di blu e Meraviglioso, Raccontami di Francesco Renga e la splendida E poi di Giorgia, Un’emozione da poco e Quando nasce un amore di Anna Oxa, un confronto fra La solitudine di Laura Pausini e Non ho l’età della Cinquetti, Cosa resterà degli anni ’80 di Raf, Quello che le donne non dicono della Mannoia e Brividi di Rossana Casale, Al di là, Se piangi se ridi e Quando vedrai la mia ragazza della gloriosa decade degli anni ’60.\r\n\r\nIntervista di: Cinzia Ciarmatori