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Greenpeace denuncia le pratiche di pesca distruttive

Greenpeace, impegnata in Oceano Indiano nordoccidentale con la propria nave Artic Sunrise, denuncia come pratiche di pesca distruttive e non regolamentate in alto mare minaccino la salute degli oceani. I governi continuano a non agire per fermare il saccheggio dei nostri oceani, mentre risorse fondamentali per le comunità costiere e preziose specie marine stanno diminuendo drammaticamente a causa della pesca eccessiva.

Pratiche di pesca distruttive la denuncia di Greenpeace

Le reti derivanti d’altura, conosciute anche come “muri della morte” e bandite dalle Nazioni Unite trent’anni fa, sono strumenti particolarmente pericolosi per specie marine come tartarughe e cetacei. Note in Italia come spadare, continuano ad essere ampiamente impiegate nell’Oceano Indiano dove le popolazioni di squalo, anche a causa di queste pratiche, sono crollate di quasi l’85 per cento negli ultimi cinquant’anni. Questi sono alcuni dei dati contenuti nel nuovo rapporto di Greenpeace International “High Stakes: The environmental and social impacts of destructive fishing on the high seas of the Indian Ocean”.

Grafica Divina
pratiche di pesca distruttive

Con la nave Artic Sunrise Greenpeace ha documentato in Oceano Indiano nordoccidentale l’uso di reti derivanti: ben sette barche sono state filmate mentre calavano muri di reti di oltre 21 miglia di lunghezza causando la cattura “accidentale” di specie in pericolo come le enormi mante conosciute come “diavoli di mare”. Greenpeace ha inoltre potuto verificare come la pesca ai calamari è in rapida espansione con oltre cento pescherecci che operano nell’area senza regolamentazione internazionale.

L’influenza dell’industria europea si fa sentire e impedisce di prendere misure serie per contrastare la pesca eccessiva mentre specie come il tonno pinna gialla potrebbero vedere le proprie popolazioni arrivare al collasso già nel 2024. Una pesca ben gestita è fondamentale per la sicurezza alimentare delle comunità costiere di tutto il mondo, in particolare nel Sud del mondo. Le popolazioni intorno all’Oceano Indiano rappresentano il 30 per cento dell’Umanità e l’oceano fornisce la principale fonte di proteine a ben tre miliardi di persone.

Il rapporto rivela anche come pratiche di pesca distruttive, in particolare i dispositivi di aggregazione per pesci (noti come FAD) dispiegati dalle flotte industriali europee impegnate nella pesca al tonno nella regione, stiano trasformando gli habitat dell’Oceano Indiano occidentale a una scala senza precedenti, dove circa un terzo delle popolazioni ittiche commerciali è ormai sovrasfruttato. L’Oceano Indiano rappresenta circa il 21 per cento delle catture mondiali di tonno, rendendola la seconda regione più grande per la pesca del tonno, che poi arriva ai consumatori di tutto il mondo, anche sulle nostre tavole.

“Per tutelare gli oceani e le comunità costiere che da essi dipendono, servono scelte decise da parte dell’industria che oggi dipende da una pesca eccessiva e distruttiva e dei governi che continuano a permettere lo sfruttamento dei nostri mari” conclude Giorgia Monti, responsabile della Campagna mare di Greenpeace Italia. “Le zone d’alto mare degli oceani sono un bene comune dell’umanità che va protetto. I leader mondiali, inclusa l’Italia, hanno oggi la possibilità di trasformare il loro destino concordando alle Nazioni Unite un Trattato globale per gli oceani forte e che ponga le basi per tutelare fino a un 30 per cento dei nostri oceani entro il 2030”.

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