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Da conoscere Omar Sosa

Omar Sosa, cubano classe 1965, è uno dei principali jazzisti di oggi: bandleader e pianista, e però diplomato anche in marimba nonché uso a sfruttare con intelligenza l’elettronica fra dischi e concerti, ha sviluppato il suo personalissimo linguaggio musicale emigrando prima in Ecuador, poi negli Stati Uniti e infine in Europa, a Barcellona.

Nominato a quattro Grammy e vincitore di un Award della musica indipendente, Sosa è attivo da “Omar Omar”, album di debutto del 1996: da allora, collaborando anche con musicisti del calibro di Greg Landau, Carlos Valdes e il nostro Paolo Fresu, ha licenziato dischi capaci di modificare la percezione di quello che viene definito “jazz caraibico” o a volte, più genericamente, “latin jazz”, traghettandolo verso la contemporaneità e abbattendone molte frontiere timbriche: e fra i suoi capolavori spiccano “Across the Divide” del 2009, “Eggūn” del 2013 e l’ultimo “Aguas”.

Grafica Divina

Proprio per il tour italiano di “Aguas”, uscito a fine anno scorso, incontriamo il grande jazzista cubano: alla vigilia delle numerose date sul suolo nostrano in cui sarà accompagnato dalla violinista e cantante Ylian Cañizares e dal percussionista Gustavo Ovalles, quest’ultimo in vece di InorSotolongo che compare nel cd.

Il debutto del live di “Aguas” di Omar Sosa in Italia avverrà il 26 a Fano, all’interno della ventisettesima edizione di “Jazz By the Sea”: rassegna notevole che si apre il 20 con Terence Blanchard e poi il 21 ospiterà Joshua Redman, il 22 Jacob Collier, il 23 DonnyMcCaslin (sassofonista che ha collaborato all’ultimo, spettacolare disco di David Bowie), il 24 Paolo Fresu con Giovanni Sollima e l’Orchestra da Camera di Perugia, il 25 il Portico Quartet, il 27 i GoGo Penguin e il 28 la cantante ivoriana Dobet Gnahoré; senza scordare la data “extra” del 24 agosto pensata per celebrare gli ottant’anni del grande Enrico Rava con l’artista live assieme ai suoi principali sodali, il concerto all’alba del giorno 21 col pianista Mirko Signorile o la serie collateraledi solo performance “Exodus” che vedrà sfilare anche nomi del calibro di Jaques Morelenbaum, Dudù Kouaté e Maria Grand. Dopo la serata di Fano, per tornare invece ad “Aguas”, Omar Sosasarà dal vivo anche il 27 luglio a Roma (nei “Concerti del parco” della Casa del jazz) e poi in agosto a Padova (il 7), Reggio Calabria (l’8), Noto (il 10) e in Sardegna sia il 12 a Berchidda (Nuoro) che il 13 a Telti (Sassari): in entrambi i casi all’interno della rassegna “Time in Jazz” fondata e diretta dall’amico Fresu.

Sosa, lei è spesso in Italia: cosa pensa del nostro Paese e del suo jazz?

“Ho bisogno dell’Italia: dei suoi costumi, delle tradizioni, del cibo… E soprattutto dell’amore per l’arte che avete, che mi aiuta a creare in modo più elegante e pure restando legato alle mie origini, visto che per molti aspetti trovo Italia e Cuba simili. Specie quando sono a Napoli! Il jazz italiano lo conosco grazie all’amico e fratello Paolo Fresu, e lo vedo come un jazz molto solido, nonché di una magia particolare: perché i vostri musicisti hanno nel DNA la vostra tradizione, unica e decisiva per la musica del mondo. Con Paolo ho conosciuto anche l’opera lirica, del resto, una delle poche cose di cui ci siano un prima e un dopo nella storia della musica. E comunque ho lavorato da voi purecon musicisti del calibro di Alessio Bertallot o Marco Zurzolo, incido spesso a Udine da Stefano Amerio e collaboro da anni con Marco Melchior, eccellente ingegnere del suono”.

Che obiettivo ha questo suo nuovo progetto “Aguas”?

“Anzitutto, suonare musica nuova, nostra, comunicandola alla gente. Poi trasmettere un messaggio di pace, armonia, multiculturalità: umanità, direi. Infine, far conoscere la nostra visione contemporanea della tradizione che ci ha preceduto”.


Yilian Cañizares, cubana naturalizzata svizzera classe ’83, non è però nota come lei al nostro pubblico: come ce la presenta?

“Guardi, è semplice: in lei c’è una voce autentica. Ed è piena di talento, vigore, conoscenze. Invito tutti a venire a condividere con noi un viaggio di cui Ylian è timoniere, non comprimaria. E poi le dirò questo: non conta, per me, essere bravi o no, faccenda che poi dipende anche da percezioni personali. Nell’arte conta saper trasmettere quanto si ha dentro: lei ci riesce senza sforzi, e sa essere sé stessa sino in fondo creando però subito un filo diretto col pubblico”.

Quanto c’è oggi di “caraibico” nel suo jazz?

“La cultura caraibica ha colori, sapori, odori che le sono propri: e che ovviamente vengono sempre fuori, da un jazz che l’accosta. Però, più che renderlo diverso dal jazz che conosciamo di più, secondo me questo finisce col dimostrare quanto siano vicini entrambi alla comune madre Africa. La colonna vertebrale sia di un jazz che nasce nei Caraibi sia di uno made in USA è la stessa: e porta a una musica con la dinamica come elemento fondamentale, e la forza ritmica come caratteristica decisiva”.

L’elettronica invece come entra, nella musica di Omar Sosa datata 2019?

“Come un colore. Un colore che in modo sottile mira ad avvicinarsi alle sonorità attuali, a quelle in voga, per comunicare le mie idee ancora meglio”.

Le ho chiesto prima del “jazz caraibico”: e il jazz tout court, oggi cos’è? Si trova d’accordo con chi vorrebbe cambiarne il nome in “Bam!”, Black American Music?

“Eh, l’ho sentito… E ho visto già “Bam!” a logo di alcune piattaforme musicali. Ma per me il jazz è una filosofia: la filosofia della libertà. E non importa il nome che gli danno. La cultura musicale del jazz è qualcosa senza frontiere, che si caratterizza con la libertà e che la predica: faccenda questa,specie oggi, a mio avviso molto importante. Quindi a prescindere dal nome… viva il jazz! Il jazzche per sua natura parla di amore, unità, concordia, pace”.

La libertà, giusto. Lei è di Cuba: come ha vissuto gli anni del legame con l’Unione Sovietica? E oggi come stanno i cubani, dopo la fine dell’embargo?

“Guardi, io cerco sempre di non parlare di politica, però posso dirle che l’embargo ce l’abbiamo ancora dentro, noi che l’abbiamo vissuto; e ancora condiziona la vita quotidiana, anche se non c’è più. E lo fa anche se oggi i giovani possono viaggiare, realizzare i loro sogni e non staccarsi mai definitivamente dalla terra natia. Però prima c’era anche il rapporto esclusivo col blocco sovietico, come lei ha ricordato: un legame che a noi comportava anche carenza di beni di prima necessità. Insomma, non potevamo viaggiare, studiare, e non avevamo neppure un’alimentazione corretta: perciò, molti della mia generazione se ne sono andati. Io ovviamente l’ho fatto anche per condividere musica e cultura in altri Paesi: ma non solo per quello”.

E cos’ha imparato a Quito, a San Francisco, in Spagna?

“Diciamo che la mia educazione musicale ha dovuto andare di pari passo con la crescita di un verorapporto col mio io: che non è poco…”

C’è razzismo, nel jazz di oggi?

“Penso che sia possibile, sì. Anche se a dirle la verità non ho mai conosciuto nessuno, nel mondo musicale, che mi abbia parlato di razzismo nei suoi confronti”.

Lei consiglierebbe a un giovane di suonare jazz? E perché?

“Guardi, le rispondo partendo da quello che vedo nella realtà. Molti giovani si avvicinano al jazz, oggi: alcuni lo fanno perché vedono in esso la possibilità di crescere come compositori e strumentisti sino a riuscire ad esprimere al meglio quanto hanno dentro, ed altri proprio perché è una terra musicale di libertà, senza barriere”.

Ma se lei fosse un insegnante di jazz, da cosa partirebbe?

“In primis, occorre ascoltare. Ascoltare tutto, ascoltare almeno tanto. E poi studiare, studiare senza mai fermarsi: l’unica maniera di capire in quale modo esprimere al meglio la propria anima tramite la musica. Per far conoscere cos’è jazz, poi, partirei dai geni e dai loro album classici, quindi da Miles Davis, Thelonious Monk, John Coltrane, Bill Evans, Keith Jarrett, Herbie Hancock. L’albero genealogico è fondamentale, per conoscere la famiglia di cui vuoi far parte; l’unico problema è che di grande jazz ce n’è stato così tanto che non basterebbe una vita, per ascoltarlo tutto…”

Nella vita futura di Omar Sosa, invece, cosa c’è?

“Sto lavorando a vari progetti. Uno si intitola “Badzimu” ed uscirà a inizio 2020: l’ho registrato in Sudafrica con Manu Dibango, Christian Scott, la cantante Indwe, il percussionista Ashy e altri. È un progetto basato sulla musica tradizionale della regione sudafricana Venda e sui tamburi di quella cultura. Un altro progetto si svilupperà invece da quanto ho registrato durante un tour in Africa Orientale: anche lì si partirà da musica tradizionale e suonerò con musicisti di quelle zone, ma con l’obiettivo di far incontrare la tradizione africana pura ed elementi jazz segnalando similitudini e contrasti, e marcando il tutto ancora con l’elettronica. In un modo che potrei definire minimalista”.

Articolo di: Andrea Pedrinelli

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